"Ne hai voglia a dire”, borbotta piano mentre si passa lo smalto sull’alluce: rosso passione. Poi si
allontana col corpo, muove il piede per asciugare lo smalto, si guarda le gambe già abbronzate.
“ Non è semplice”, conclude, chiudendo la boccetta dal tappo bianco.
“ Certo che tu…Tu sei il bignami delle banalità” e mescolo il sugo con rabbia e schizzi di pomodoro
saltano sul fornello e un paio sulla sua maglia. “ Cazzo. Potresti anche fare qualcosa di utile nella vita: provare a guardare oltre lo specchio, cercare di capire che esiste un mondo, il mondo, la gente oltre al rasoio per depilarti e quel fottuto smalto color troia” e spegno il fornello.
“ Sempre così lord tu, eh? Non sei meglio di me, degli altri, perché fai le cose, pulisci, ti rendi utile:
fai tutto per dovere. Aspetti un grazie. Ti aspetti che la gente ti sia riconoscente. E allora grazie ma
solo per non sentirti ancora.”.
Il piccolo tegame con il sugo compie un semicerchio perfetto, prima di schiantarsi contro il muro. Il
pomodoro scende, lento e fumoso, fino al pavimento.
“ Ma sei completamente andato? Fottiti.”
“Tu sei pazza.”
“Fottiti, stronzo”
“Sì, sei decisamente pazza.”
Si alza e cammina sui talloni come un palmate, attenta a non macchiarsi con lo smalto ancora fresco, esce dalla cucina con tale grazia:
“ E tu sei decisamente stronzo”.
Mi siedo allora sulla sedia lasciata da lei poco prima. Ne sento il tepore. Tremo tra dispiacere e arresa. Rifletto, sospiro e mi guardo intorno in una cucina a mattonelle fiorite. Mi alzo, poi, prendo
la spugna dal lavello, comincio a pulire il muro.
“ Comunque me ne vado, oggi. Me ne torno a casa mia: ripeto casa mia”, la voce arriva dalla camera, insieme al suo profumo.
“ Si, come no”, sghignazzo sotto voce"
“ Oh sì, certo che sì caro mio”, lei più vendicativa di prima.
“ Mi lasci, solo, qui?”
“ Te lo meriti”, la voce è più vicina e lo dice affacciandosi sulla porta della cucina mentre si spazzola i denti.
La seguo in bagno con la mia spugna intrisa di rosso del pomodoro. Rimmel sulle ciglia, un rossetto
inciso sulle labbra, un sorriso e scandisce bene le parole guardandomi trafilata dalla sua immagine
riflessa allo specchio, velenosa, irritante e superba:
“ Oh. Sì. Che. Posso.”.
Torna in camera, prende la sua valigia, si guarda intorno nel disordine e afferra quella boccetta dal
tappo bianco che ha fatto traboccare questo sabato settembrino.
La osservo sott’occhio mentre in ginocchio in cucina strofino la spugna sul pavimento: un cerchio rosso che si allarga, si allarga, si allarga.
Il rumore del portone che si chiude dal fondo del corridoio è perentorio.
Si alza allora un vento fresco che dalla scale arriva forte al mio viso: smetto di strofinare e quella ventilata è nient’altro che il senso di leggerezza mi prende dallo stomaco fino alle tempie. “Finalmente”, sospiro, e già penso che il divano stasera sarà più comodo per stenderci su le gambe.
Il silenzio religioso regna dalla cucina fin su i mobili delle stanze.
Dalla finestra invece poi sento:
“ Dove vai? Cosa è successo? Vieni qui! Aiutatemi”.
Mi alzo in piedi, mi porto al balcone col mio grembiule bianco e le maniche della camicia tirate in su, credendo che di sotto fosse scappato un leone dal circo.
Guardo dal terzo piano verso la strada: è lei abbracciata in lacrime al collo della fioraia. Questa alza lo sguardo e vede me, macchiato di rosso che sembrava uscissi da una macelleria messicana. Ingrugna il muso e scuote la testa in linea orizzontale:
“ Cosa è successo? Cosa le hai combinato? Ma che vi siete ammazzati?”“ Povera figlia”, intanto se la coccola.
Io non rispondo: le prove sono tutte contro di me anche per via del mio abbigliamento domestico.
Me ne resto con le mani sulla ringhiera fin quando la fioraia non abbassa lo sguardo inquisitorio e
me ne torno dentro, sicuro d’averla fatta franca alle ire del vicinato femminile.
Passano cinque minuti: cinque minuti in cui ho riassaporato il senso di libertà e quello della
frustrazione ma soprattutto la leggerezza per cui quell’umiliazione mi sarebbe servita ad essere
felice in futuro.
La cucina ha l’odore del cucinato misto a quello acre del pomodoro e dello svelto. In terra è ancora
appiccicaticcio mentre le onde della spugna si sono solidificate lasciando grandi segni rossi sul
piano del pavimento e pur non volendo resto fermo sui miei passi.
Si apre la porta.
“ Non è successo niente? Eh? Per te non è successo niente?”.
E' tornata l’isterica, i cinque minuti di silenzio sono finiti con il passo tosto dei suoi tacchi lungo il
corridoio.
“ Portami l’acqua, ho sete. Luigi per Dio ho sete”, ripete con tono fascista mentre sbatte la sedia e
con un salto seccato si siede.
Metto la spugna nel lavello.
Il coltello è lì, fra le cose da lavare.
In quell’istante mi passa un film che nemmeno Dario Argento.
Lo tengo nel pugno, lo stringo, lo lascio cadere sull’acciaio e poso entrambi le mani sul lavabo
mentre le do le spalle.
Sudore freddo scorre sugli occhi portato dal vento caldo della fine dell’estate.
La testa scoppia. Conto fino a dieci. I battiti del cuore fin dentro la fronte insieme alla lancetta dei
secondi che si muove nel grande orologio a muro sulla mia destra. Le orecchie si spengono e le
parole “Portami l’acqua” sono un eco lontano.
Respiro.
Un barlume.
Mi riaccendo.
Apro il rubinetto e le riempio nel bicchiere la sua richiesta.
Lei lo prende e sbatte il bicchiere ancora pieno, afferra la sua valigia e se ne torna in camera.
Lascia sul tavolo quell’odiosa boccetta di smalto il cui colore è il medesimo di questo pomeriggio
che volge al tramonto.
Me ne resto lì a pulire le macchie e la coscienza di una stupida mia ossessione, canticchiando come
faceva mia madre “occhi di ragazza” di Morandi.
Cinque minuti di silenzio, sperando che durino.