Si trascinò nel bagno, l’usato rituale mattutino la attendeva, tra scroscio di acqua nel lavandino e il riempirsi dello sciacquone appena tirato.
Doveva mettersi la maschera, indossare panni non suoi, ai quali aveva teso ogni sforzo nei suoi migliori anni e dentro ai quali adesso si sentiva prigioniera…
Lo specchio rifletteva un volto asciutto, lineare, appena segnato dai primi accenni di una maturità in procinto di avviarsi alla sfioritura. Le piaceva, di solito, quello che lo specchio rifletteva di lei. Quella mattina no, la bocca era contratta in una smorfia di fastidio, gli occhi segnati da occhiaie profonde e livide, miste di piacere, insonnia e pianto.
Distolse lo sguardo, di nuovo in camera aprì l’armadio per estrarne il suo tailleur Chanel delle grandi occasioni, ai piedi le sue Louboutin elevate sul tacco vertiginoso a mostrare l’inconfondibile suola rossa.
“Ecco” pensò passando velocemente davanti allo specchio “ora ci siamo”.
I capelli lievemente spruzzati di argento sapientemente camuffati da meches perfettamente curate adesso le ricadevano sul colletto della giacca, in volute organizzate.
Sbottonò anche il secondo bottone della camicetta lasciando in quel modo intendere che di lì a breve occhi curiosi, e ce ne sarebbero stati di ben più attenti al suo scollo che non a quello che doveva dire, avessero l’autorizzazione ad intravedere il pizzo del reggiseno nero che incorniciava due seni ancora sostenuti.
Prese il beauty case e in automatico le sue mani con esperienza quasi robotica tracciarono i segni della sua maschera sul viso.
“Ora il rossetto” pensò, e lì le mani si fermarono incerte su quale fosse la nuanches giusta da scegliere nella ben nutrita cartucciera. Sebbene nell’insieme del suo abbigliamento non fosse la scelta cromatica migliore, le dita caddero sul rossetto rosso fuoco.
“Il rossetto RossoZoccola” pensò tra sè accennando un sorriso tirato. Aveva da sempre una strana idea in merito alla più prestigiosa delle nuanches di rossetto di ogni brand di cosmetici, il rosso appunto. Un colore pericoloso, la cui linea di confine tra l’estrema sensualità e la volgarità più squallida aveva confini talmente labili da costituirne un elemento di rischio la stessa scelta di indossarlo, una sorta di mano di poker da giocarsi a fil di labbra…
Una cosa non sopportava del rossetto rosso, e cioè la tendenza ad infilarsi col passare delle ore nelle microscopiche rughette che le segnavano il contorno del sorriso. Le vedeva arrampicarsi, ad ogni progressivo controllo davanti allo specchio del bagno del suo ufficio, e segnare inesorabilmente il tempo che avanzava sulla sua pelle. Stese il colore, partendo dal centro del labbro superiore.
“Ma sì…in fondo cosa sono stata fino a poco tempo fa se non una zoccola montata dal primo che passa, esonerandolo pure dall’obbligo del pagamento!” pensò tra sè mentre riaffioravano i ricordi di come la sera prima era stata approcciata in una serata alcolica in solitaria in uno dei luminosi locali della movida cittadina che le scorreva ogni notte sotto casa. Era stata una follia accettare che quello sconosciuto le offrisse uno, due, tre?…bicchieri di mojito. Poi cos’era successo? Come erano finiti a casa sua, nel suo letto? Come era stato possibile? In fondo però non era stato male essere dilaniata come carne da macello. Il cuore spento, finalmente. La mente spenta, finalmente. Niente complicazioni, niente pensieri. Dovevano sentirsi così le puttane… usate, ma libere.
“Fanculo!” e spinse indietro una lacrima che avrebbe a quel punto rischiato di rovinare tutta l’artistica costruzione del suo volto perfettamente dipinto. Improvvisamente il suono prolungato, acuto, strillante del campanello la fece sobbalzare. Gli occhi di nuovo immediatamente allo specchio…
Il sorriso di quella donna riflessa si allungava adesso increspato fino alla metà della sua guancia sinistra quasi a disegnare una metà oscena del volto del Joker.
Di nuovo il suono acuto e prolungato. Una, due volte. E ancora.
Chi poteva essere tanto impaziente da suonare alla porta in maniera così insistente?
Le mani percepirono della stoffa sotto i polpastrelli delle dita.
Le orecchie erano appoggiate su qualcosa di morbido, ovattate.
“Perchè ho gli occhi chiusi? E perché continuano a suonare?”
Improvvisa, immancabile, come ogni mattina, tornò la mente, gli occhi si aprirono.
“Era un sogno…” pensò, finalmente cosciente.
Il suono fastidioso veniva dalla sveglia. La spense. Si voltò sul cuscino.
Mal di testa.
Doveva alzarsi.
Si tirò in piedi e passando ai lati del letto vide riflessa nello specchio la figura di una donna sconvolta, così lontana da quella immagine di lei fasciata nel tailleur Chanel issato su Louboutin che aveva appena incontrato nel sogno. Nessun segno di rossetto rosso colorava quelle labbra da molto tempo.
Si avviò nella stanza accanto. Quella che apparve fu la solita scena di tutte le mattine, di tutti i giorni, di ogni ora in realtà, quando doveva recarsi al capezzale di suo marito a controllare i valori vitali come le era stato insegnato di fare da mesi ormai.
Quell’uomo era stato l’amore della sua vita, le aveva regalato il più bel sogno ad occhi aperti che una donna potesse desiderare, l’aveva amata.
Quell’uomo moriva.
Ma non oggi, non ancora.
E lei aveva appena sognato tutta la tristezza che ci sarebbe stata nella sua vita quando lui non ci sarebbe stato più.
Si avvicinò al letto. Prese la mano a quell’involucro di uomo che le macchine tenevano ancora in vita.
Gli sussurrò leggera all’orecchio: “Non te ne andare. Non spegnere il tuo sogno. I miei diventeranno incubi se non ci sarai tu.”
Baciò lieve quelle guance sfigurate e si voltò verso il mobile su cui erano appoggiati tutti gli attrezzi del nuovo mestiere di infermiera che era stata costretta ad imparare.
Ai lati degli occhi chiusi di quella sindone di uomo che giaceva inerme, invaso da tubi trasparenti, luccicò una lacrima. Su di essa batteva il riflesso sottile dell’unica lama di luce di un sole timido che si intrufolava tra le persiane chiuse a rompere il buio.
Il sogno. La vita. La morte.
Fuori era primavera.
Fuori.