Eccola. E’ nuovamente di fronte a me. La Solitudine mi perseguita.
E’ una presenza a volte ingombrante, a volte discreta. Tento di seminarla a volte e mi sembra di riuscirci a volte ma si prende gioco di me. Finge di essere stata lenta ed io, con superbia, mi volto e non vedendola più mi pascio tronfio del mio successo ma, in realtà, continuo a sentirne l’odore, è lontano ma non svanito.
Il naso si abitua nuovamente e, senza che io me ne renda conto, è tornata, me la trovo davanti a braccia conserte che mi aspetta con un sorriso beffardo stampato su un volto inafferrabile.
Sospiro, me l’aspettavo.
E’ che quella stronza della Speranza mica soccombe mai e mi sussurra maliziosamente all’orecchio che prima o poi sparirà quella presenza che trasforma il mio essere in assenza.
Io invece me lo ripeto sempre che l’accettazione è il primo passo, perché lo so, io, che certe cose le hai nel DNA, mica te lo strappi dalle vene il DNA.
Questo pensiero però, anziché predispormi alla quieta rassegnazione, mi scaraventa con violenza nelle braccia della Paura. La Paura che la solitudine si tramandi di padre in figlio ed il figlio possa vedere davanti a sé l’esatto epilogo di una storia che ha disprezzato ma che, piano piano, sta diventando la sua, un remake di un vecchio film la cui sceneggiatura finirà magari per essere ancora più scadente dell’originale.
Più paurosa, di certo. La consapevolezza fa Paura.
E’ come se tutte le cellule conoscessero il copione e una forza, la forza della Solitudine, ti costringesse a interpretarlo.
E così ti ritrovi a cullare quel vuoto così familiare che ormai ti fa compagnia.
Ironico vero?
Rispondo alla Solitudine con un sorriso beffardo pure io, spero così di nascondere il labbro inferiore che sta tremando per Paura.
Le corro incontro abbracciandola come una vecchia amica.
E siamo nuovamente assieme, come in ogni finale che si rispetti.