Quando vidi apparire il nome di Irma sul display del cellulare pensai che si trattasse di telepatia. La stavo chiamando prima di cena, ma la telefonata di un amico era sopraggiunta. Sapevo già cosa mi doveva dire: mi avrebbe confermato che ci saremmo viste l’indomani a pranzo. Mi aveva detto che avrebbe voluto pranzare in quel ristorante vicino casa appena aperto. Le piaceva provare nuovi locali perché voleva essere sempre aggiornata sulle novità della zona. Per lei si trattava di un’occasione in più per uscire e di un argomento di conversazione con le amiche. Le piaceva far credere di avere una vita sociale brillante, ma si trattava più di forma che di sostanza. Non c’erano eventi esclusivi nella sua agenda quanto piuttosto serate in compagnia dei soliti amici. Insomma, ciò che facciamo tutti senza sbandierare chissà che frequentazioni. Il suo mondo di “zucchero candito”, come lei lo definiva, era quello di una signora agiata che conduceva un’esistenza più comoda che stimolante.
Si lamentava della vita di paese, si sentiva diversa e, appena poteva, andava in città per respirare a pieni polmoni quella degli altri. Le sue giornate, una volta diventati grandi i figli, avevano perso di spessore e si ritrovava con altro tempo libero da occupare. Gestire l’andirivieni dei figli e il pranzo domenicale erano ben poca cosa rispetto alle energie che ancora sentiva di avere. Così, lei e il marito, uscivano spesso pur di non trovarsi a cena soli e senza argomenti nella grande casa. Quando si confidava con me, i miei pensieri andavano ben oltre e provavo a proiettare la mia vita in avanti di quindici anni. Cosa sarebbe stato di me?
Le previsioni del tempo annunciavano temporali e, poiché ero incuriosita dal nuovo ristorante, le avevo proposto di andarci con i rispettivi mariti. Le mie parole erano uscite prima dalla bocca che dalla testa e, a posteriori, mi sarei voluta mordere la lingua per via dello scarso entusiasmo di Irma alla mia proposta.
Tra i mariti non correva più un buon rapporto a causa di una discussione avvenuta un anno prima. I due erano così passati dalla simpatia reciproca a una diplomatica cortesia. Una lite in cui ognuno aveva le proprie ragioni e che non era stata risolta in modo definitivo ma, all’ombra di questo episodio, noi amiche avevamo continuato a vederci. Le ferite lasciano traccia, ma guariscono, questo era il mio motto.
“Senti”, mi aveva detto in tono asciutto: “Parlane con tuo marito e fammi sapere per quanti devo prenotare”.
Lo avevo fatto la sera stessa, pure lui aveva arricciato il naso all’idea, ma aveva accondisceso e conoscendo la precisione dell’amica, non dubitavo che avrebbe prenotato per tempo. Non avendola più sentita, ritenevo che non ci fossero contrattempi, ma dovetti ricredermi.
Risposi alla chiamata di Irma con il sorriso sulle labbra: “Ciao meraviglia, come stai?”.
“Tutto bene anche se le giornate passano sempre troppo in fretta e siamo già a sabato sera”. Un’altra frase tipica del suo repertorio volta a mascherare la montagna di tempo libero che a malapena occupava con le faccende di casa. Io mi domandavo come mai non si fosse realizzata in altri ambiti. Si nascondeva dietro al ruolo di moglie e madre per farsi andar bene una vita tranquilla, ma noiosa. Le chiesi: “Come rimaniamo per domani? Ci vediamo là all’una?”
“Bea… c’è un imprevisto”, mi disse con voce risoluta. “Alfredo domani ha la reperibilità e teme che lo chiamino dalla centrale elettrica per delle urgenze. Inoltre, al ristorante non c’è più posto. Ho chiamato a mezzogiorno per prenotare e, non ci crederai, ma è tutto pieno”.
Rimasi di stucco, non potevo credere alle parole di Irma. Suonavano come quelle di un copione studiato in anticipo e in ogni dettaglio, lei era una che si muoveva per tempo e non potevo credere che avesse chiamato per prenotare il giorno prima. Le cose stavano in un altro modo: lei e il marito volevano sottrarsi all’impegno con noi, o forse avevano trovato di meglio da fare. I contenuti della sua telefonata, arrivata alle otto di sera del giorno prima, servivano per spiazzarci ed evitare altri coinvolgimenti. La reperibilità del marito era un’ulteriore scusa per non trovare una soluzione alternativa. Fine delle discussioni. Il piano era chiaro.
I motivi che mi avevano fatto dubitare sulla convenienza di quel pranzo furono confermati. Non riuscii a incavolarmi e la delusione mi ammutolì. Il vero dispiacere non era per il programma saltato, ma per tutto il resto.
“Mi dispiace…” aggiunse con una vocina finta come le tette rifatte.
“Dai, cerchiamo di rivederci presto”. Intendeva: me e lei.
Come no, pensai, invece risposi: “Si, si, tranquilla. Buona serata”.
Riagganciai il telefono e mi diedi della vigliacca per non averle detto ciò che pensavo. Interrotto quel walzer di perbenismo e battute da copione, nella mia testa si erano aperte mille domande su come mai mi facessi andare bene un’amicizia del genere.
A cena raccontai a mio marito Vittorio l’accaduto e convenne con me su tutto: Irma e Alfredo avevano escogitato un piano a prova di replica.
La mattina successiva Vittorio mi raggiunse in cucina per colazione e mi propose di fare un giretto a Milano dopo pranzo. Fu così che, verso le due del pomeriggio, ci trovammo a passare davanti al ristorante dove avremmo dovuto pranzare con Irma. Mi disse: “Entriamo a bere un caffè così vediamo com’è l’ambiente”.
“Buona idea!”.
Entrammo nel locale, il bancone decorato con dei pannelli di specchio si apriva davanti all’ingresso. Il proprietario ci accolse col sorriso e ci invitò ad entrare. Il caffè, servito in una tazzina di fine porcellana, aveva un buon retrogusto di nocciola e cacao. Mentre sorseggiavo la bevanda calda, vidi riflesso nello specchio le sagome di Irma e del marito seduti a tavola con un’altra coppia di amici. Ecco spiegata l’intera faccenda. Non so dirvi se mi bruciò più il caffè andato di traverso o la rabbia nel sangue.
Come una furia entrai nella sala, mi diressi verso di loro, iniziai a insultarli, loro si paralizzarono per lo stupore e non riuscirono a impedire che prendessi i lembi della tovaglia per riversargli addosso tutto quello che c’era sopra. Gli altri avventori del locale abbandonarono i loro tavoli e mi trovai ansimante a guardare ciò che avevo appena fatto. Irma piangeva, Alfredo tentava di ripulire i vestiti dell’amica e mio marito era corso a trattenermi. Una scena da film.
E invece no. Non feci nulla di tutto ciò. Vittorio mi disse che c’era da aspettarselo da quella donna che aveva già mostrato i suoi limiti in più occasioni e non avevo più scuse per continuare ad accettarli.
Pagammo il nostro caffè e lasciammo al cameriere un biglietto con scritto: “Ci auguriamo che abbiate mangiato bene e che le bugie che raccontate vi aiutino a digerire la pessima figura che avete fatto con noi. Addio. Vittorio e Beatrice”.