Era un uomo di mare: camminare sulla terra lo disorientava.
La notte era calata in fretta; come un drappo discreto, la sua coltre scura faceva da sfondo allo scintillio elegante della skyline, oltre la baia velata di nebbia. Il profilo discontinuo dei grattaceli si rifletteva sull’acqua cupa del porto, irradiando tremuli bagliori filiformi fin sulle vecchie pietre, consumate dall’incuria e dalla salsedine. Un vento tagliente portava odore di immondizia e legna marcia.
Michele aveva provato a dormire, steso contro un cumulo di casse e rotoli disordinati di canapa, incurante dei ratti che gli si avvicinavano ai piedi nei loro misteriosi percorsi notturni. Ma un marinaio se ne infischia dei topi, i quali, semmai, lo impensieriscono soltanto per la loro improvvisa assenza. Non riusciva invece a scacciare l’immagine di quegli occhi verdi, di un colore rubato al mare, quando stanco di tempesta, si culla in lunghe onde di risacca, prima di riprendere l’eterno sonno.
Per cui si era alzato, sfregandosi il sedere gelato: faceva freddo, più di quanto aveva pensato sbarcando, quel pomeriggio. Si era avviato lento verso la città sconosciuta, cercando di indovinare un percorso nel dedalo oscuro di strade e costruzioni che separava il porto da quella scintillante selva di torri luminose. Era dura tenere a bada l’angoscia.
A spaventarlo non era la fame, o il fatto di trovarsi di nuovo senza tetto e senza lavoro: queste cose le conosceva, gli facevano compagnia da una vita. Piuttosto lo tormentava il pensiero di lei e di non riuscire a ritrovarla: l’idea gli rimestava le budella, torcendole con mano sadica, e facendogli desiderare di stendersi e rannicchiarsi come un bambino.
Continuava però a camminare, cercando di liberarsi da quella sensazione di stordimento. Le ore, scandite dai toni ovattati di una pigra alba fumosa, sfilavano ai margini delle strade di periferia. Michele guardava senza vederla la successione di baracche ingrigite dalla polvere, muri scrostati, ragnatele di cavi ingrovigliati contro un cielo indaco, che tardava a schiarirsi.
Lo sfondo della metropoli si muoveva ai lati della sua mente assente, mentre camminava in linea retta lungo il margine di uno stradone deserto, schivando pezzi di lamiera e bottiglie fracassate.
La vivida luce del mattino invernale invase con graduale prepotenza le tortuose profondità della sua coscienza: alla fine, inesorabile, era sorto il sole. Si scosse, costringendo lo sguardo tutto intorno. Piccoli parchi trasandati riempivano lo spazio vuoto fra torrioni scrostati di cemento armato, punteggiati di finestre opprimenti e sudicie. Dai marciapiedi scheggiati spuntavano foreste di pali e radi alberi, spellati dal freddo. Merde di cane, rifiuti e macchine sporche giacevano in ordine sparso lungo il bordo discontinuo delle strade, dai mosaici di asfalto rappezzato intorno a buche mai riparate. Era quella, dunque, la città. Il favoleggiato approdo, che i suoi compagni perduti avevano sognato, invocandone il nome contro le fredde stelle lontane, affidandone il suono al vento beffardo, che spazzava il ponte del mercantile e impregnava la giubba di spruzzi gelati.
A lungo Michele esplorò il luogo dove lei si nascondeva, vagando in cerca delle tracce di quella donna sconosciuta e senza nome, che aveva visto scivolare nella cabina del capitano quasi ogni notte. Per lei era sbarcato, rinunciando alle sue modeste certezze di uomo di mare, con l’unica ragione di sentire i suoi passi leggeri risuonare per le vie sconosciute dell’antica metropoli.
Quante volte immaginava i suoi occhi di smeraldo, scintillanti nel sole dorato, mentre osservavano lo stesso orizzonte dei suoi, contemplando un identico scenario urbano. Ma per il tramite di quelle gemme, doveva apparire tutto incantevole e meraviglioso: al posto dei casermoni di cemento, lei scorgeva palazzi sontuosi, con cupole scintillanti che si perdevano nella nebbia, sormontante da torri leggiadre ed aeree guglie splendenti. Dove lo sguardo di lui, inaridito dal mare, contemplava desolate sterpaglie e arbusti rinsecchiti, la vista incantata della sconosciuta avrebbe vagato su distese lussureggianti di piante da fiore.
Di sicuro quelle innumerevoli infiorescenze multicolori avrebbe evocato anche la sensazione di inebrianti aromi, complicati effluvi, raffinate presenze odorose, capaci a loro volta di suggerire al palato stuzzicanti sapori, note di un gusto che di volta in volta diveniva speziato, poi più dolce, d’improvviso pungente, seguendo il ritmo sommerso di un’intima sinfonia. E quelle partiture, tutte mentali, generate dalla luce filtrata per gli occhi, avrebbero risuonato, nell’intimità uditiva di lei, più intense degli spettrali rintocchi delle campane, più struggenti del lamentoso richiamo che si levava dai minareti verso il tramonto, o delle strida delle procellarie, confinate sugli scogli, quando il mare infuriava e il vento mordeva la pelle scoperta.
Col tempo il marinaio si era così impratichito, in quell’esercizio di trasposizione, da considerare ciò che vedeva con i propri occhi come un mero simulacro: la realtà divenne un riflesso confuso, alone indistinto nello specchio di due gemme verdi, fugacemente intraviste, ma mai dimenticate. Come un cieco, viveva nell’illusorio ricordo, sempre più deforme, di una visione perduta.
Di questo, Michele era solo in parte consapevole, ma del tutto felice. Si aggirava per le strade scialbe di periferia, vagando in un mondo inaccessibile, fatto di viali ombrosi e profumati, dove le cascate iridescenti di gelsomini e buganvillee si arrampicavano sulle facciate chiare dei palazzi, intorno ai profili di eleganti ballatoi e scalinate dai riflessi marmorei; fronde rigogliose oscillavano al vento di scirocco, gettando arabeschi di luce sugli elaborati mosaici bizantini, nel chiuso discreto di cortili ombreggiati. Tutto si popolava di suoni melodiosi, colori ed effluvi vivaci; sapori e pensieri si confondevano all’interno della sua bocca, che spesso si muoveva voluttuosa, mentre lui si aggirava per le vie, assaporando qualcosa di più struggente di un ricordo, gradito come un intimo pane fragrante, ben più forte del vino.
Così tanto era trasfigurato il suo mondo che, quando finalmente la incontrò, non la riconobbe. Anche lei lo vide: mentre voltava l’angolo di un vicolo, conducendo i suoi passi frettolosi verso il centro, lo scintillio smeraldino brillò sul viso di un vecchio sporco, dagli abiti a brandelli, l’espressione assente, la bocca sdentata, la barba incolta. Vi passò accanto rapida, inconsapevole e distratta; nel volgere di un battito di ciglia, gli occhi della donna tornarono a contemplare il profilo maestoso del centro città, arcate e pinnacoli contro il cielo terso.
Ma in quell’attimo Michele aprì gli occhi e il suo sguardo si posò, per sempre, sul viso di un angelo.