“Le cose che fanno crescere sono quelle che ti si appiccicano addosso e ti graffiano la pelle, di cui non ti liberi ed a cui ti devi abituare se vuoi galleggiare in quel mare di difficoltà che è la vita”. La dottoressa parlò guardandoli tutti negli occhi, uno dopo l'altro. Era convinta di quello che stava dicendo, lo aveva vissuto lei stessa, ma sapeva che ogni sguardo che si era incollato al suo si vestiva degli stracci del disprezzo e del menefreghismo, semplicemente perché 'cosa cazzo ne sa questa qui'. Non ne sapeva niente infatti, non nello specifico, ma aveva affrontato molte volte i cambi di rotta della propria vita, sbattendoci sempre la faccia e l'orgoglio finendo spesso lunga distesa a terra. Si era sempre rialzata però, con un livido di più, qualche contusione o magari un paio di ossa rotte, ma era sempre riuscita a riprendere il cammino.
Martina la guardava dal basso in su, lasciando la testa penzoloni sulle spalle con l'intento di raccontare a tutti che non le importasse niente di trovarsi lì, ma i suoi occhi non avevano smesso un attimo di scrutare la donna che stava seduta due sedie più in là, alla sua sinistra, e le orecchie non si erano distratte mai. Non ne sapeva molto della dottoressa Gigliotti per la verità, avrebbe detto che avesse più del doppio dei suoi anni e la riteneva bella, a suo modo, nonostante gravitasse intorno alla cinquantina. Le sembrava un tipo tutto d'un pezzo, con i capelli neri raccolti in uno chignon sopra la nuca, il trucco leggero ed i vestiti dimessi, quasi casti. Non aveva gioielli a parte una catenella d'oro, ma era molto sottile, a maglie strette e piccolissime, e non si capiva quale fosse il pendaglio perché spariva a nascondersi nello scollo della camicetta color malva. Sedeva composta su una sedia, con tutte e due le piante dei piedi men poggiate a terra, ed aveva un comportamento contenuto, tranquillo e posato, nonostante le interruzioni e gli attacchi che i ragazzi ogni volta muovevano impietosamente verso di lei. Era una brava terapista, di quelle che ascoltano tanto, forse la migliore di tutti quelli che aveva incontrato, e ne aveva incontrati tanti. Poi le piaceva il tono della sua voce: era calmo e rilassato, il tono che si usa coi bambini per far capire delle cose semplici, banali, così chiare che basta solo indirizzarli un po' ed ecco che si illuminano di comprensione. Era quasi materna.
Martina la vedeva così ma non glielo aveva mai detto, un po' perché aveva timore di sbagliarsi e un po' perché non voleva che cambiasse atteggiamento verso di lei. Ma anche perché non si era ancora resa conto che questa sua visione della dottoressa e del suo lavoro non dipendeva tanto dal suo approccio professionale, quanto alla sua personale predisposizione alla svolta, quella svolta di cui la dottoressa Gigliotti stava appunto parlando: la crescita.
“Capite ragazzi? Se non si sbatte la faccia contro il vetro, se non ci si ferisce in qualche modo è impossibile andare avanti. Credete che chi ha sempre avuto una vita perfetta, una famiglia perfetta, un lavoro perfetto... insomma tutto il pacchetto, credete che quella persona sia cresciuta? No, quella persona è lontana anni luce dalla crescita. Che sia realizzata è un'altra faccenda, che abbia denaro o potere non vuol dire niente, perché quando è tutto facile, quando si cammina sempre in discesa, appena ci si para davanti una salita l'affanno arriva prima e dura molto di più, tanto da perdere il fiato”.
“Nun ce credo dottoré! Quelli coi sordi c'hanno sempre avuto la vita facile, perché se devono annà a complicà la vita? A me me rode quanno li vedo coi macchinoni, coi rolex, ma che posso fa? Niente, nun posso fa niente. C'ho provato a esse come loro, ma io i sordi nun ce l'ho e me so ritrovato a rubà a mi madre pe comprà la roba e mo sto qua, al gabbio senza sbare”.
“Perché ti rode Paolo? Cosa pensavi di avere meno di loro?”
“I sordi...” rispose il ragazzo di fronte a lei, seduto con le gambe esageratamente divaricate e vistosi tatuaggi su collo e avambracci.
“E la fregna!”aggiunse un altro. Tutti si misero a ridere, compresa la dottoressa. Martina sorrise.
“Beh, donne e soldi a parte, cosa ti mancava Paolo? Avevi un lavoro, genitori che ti amavano, amici. Cosa pensavi di avere meno di loro?” Paolo ci pensò un attimo, ma non rispose. “Te lo dico io: tu non avevi niente meno di loro o, meglio, non ti mancava niente di quello che realmente ha valore. Hai cominciato a drogarti per sentirti come loro, per entrare nel loro giro, solo che presto non hai retto il loro ritmo, soprattutto economico, poi c'è stato il tracollo e ti sei ritrovato qui, costretto dici, ma forse nemmeno troppo, correggimi se sbaglio”. Paolo scosse leggermente il capo. “Ecco vedi? Questa è la tua occasione di crescita. Dovete prendere la tossicodipendenza come il punto d'inizio, non di arrivo, perché la vostra vita è iniziata appena avete capito di avere un problema e di volerlo risolvere”. A quelle parole tutti parvero rintanarsi dentro se stessi per riflettere, soppesando e giudicando quello che avevano sentito. Martina guardò i suoi compagni, ragazzi più o meno suoi coetanei con una storia simile alla sua che stavano cercando di rimettersi in piedi, cosa che avrebbe tanto voluto fare anche lei, in senso meno figurato.
“E se la botta è forte? Se non si riesce ad alzarsi?” Chiese Martina, improvvisamente infastidita da tutta quella accondiscendenza.
“Si chiede una mano, come avete fatto voi”.
“Io non voglio aiuto, sono costretta” continuò la ragazza.
“Accettare i propri limiti e cominciare a conviverci è il primo passo, Martina”.
“Già, mi sa che non sarà semplice per me”.
“Perché? Perché hai avuto sfortuna?”
Martina pensò che sfortuna non era proprio la parola adatta. Preferiva parlare ancora di colpa, la colpa di qualcuno che l'aveva resa schiava di antidolorifici e psicofarmaci.
“Qui la sfortuna non c'entra niente...”
“Hai ragione, ho sbagliato. Tu non hai avuto sfortuna, tu hai avuto un'opportunità”.
“Che cazzo sta dicendo? E' impazzita?” Martina alzò la voce ed i suoi compagni, che l'avevano sempre vista pacata e in disparte, si accomodarono meglio sulla sedia per godersi lo spettacolo.
“Non sono impazzita, seguimi per un momento. Pensi di essere la stessa ragazza di un anno fa? Pensi di non essere cambiata?”
“Sono cambiata eccome...” la schernì la ragazza.
“Martina sai a cosa mi riferisco” la interruppe la dottoressa, seriamente.
Martina ci pensò un po'. Nella sua mente rivide la ragazza che era, la persona che era sempre stata. Se analizzava bene la se stessa di allora e di adesso poteva facilmente notare sostanziali cambiamenti, e quasi tutti del genere che intendeva la dottoressa. C'era meno spazio per le frivolezze e la realtà aveva preso posto entrando a spintoni, insediandosi bella comoda nei suoi giorni diventati, da allora, pesanti e plumbei. Sì, era cambiata, ma il suo cambiamento non era ancora finito.