Una brezza delicata, dolce increspa appena il mare e accompagna con complice intimità il tepore del sole di primavera. Quel sole appena surriscaldato, la cui energia ritempra e induce all’ozio, all’introspezione. A volare oltre le miserie e gli affanni incrostati della realtà. Privo ancora di quella esuberanza estiva che, al contrario, spossa e rende insopportabili le ineluttabili gromme. Immerso in questo ammaliante sollievo, come se quel giorno fosse stato riconfigurato magnanimamente per me, giaccio in una estatica meditazione, seduto al bar. In compagnia di un piccolo gabbiano appollaiato alla vicina balaustra. E così, mentre navigo oltre le nuvole, tra i meandri intricati di mille e più pensieri, vecchi perlopiù, ma anche nuovi e persino futuri, lontani, inopinatamente progettuali, che mi appare Eufrasia. Nitida e sorridente come mai l’avevo vista prima. Il suo volto è radioso, ed anche i suoi occhi, grandi e verdi, gioiosamente manifestano felicità nel vedermi, nel ritrovarmi da dove non mi sono mai mosso. Indossa il suo golfino rosa preferito, e la gonna plissettata blu, svolazzante. Come il giorno in cui le nostre vite si divisero per sempre, anche se ancora non ne eravamo consapevoli. Ovvero facendo finta di non sentire quelle sensazioni piccole, ma infallibili, sprofondate negli abissi dell’animo e che gridano a squarciagola la verità, solo quella.
Non ci fu mai nulla fra di noi. Se non vera amicizia. Tranne un attimo di debolezza, in cui in nostri sensi, d’istinto e tramortiti dalla magica sintonia, sfiorarono il contatto fisico. Ancor oggi penso fu un bene. Probabilmente la coppia non avrebbe funzionato, anche nell’immediato. L’amicizia, invece, sfrondata per sempre dal vincolo oppressivo del sesso, si rivelò la più importante della mia vita e, spero, della sua.
Eufrasia aveva i capelli fulvi, folti e mossi. Che s’ingarbugliavano nei bruschi movimenti del capo e, riassestandosi, libravano nell’aria un profumo di pulito, una fragranza indefinibile e fresca, irresistibile. Non usava truccarsi. Non mise mai nemmeno un filo di rossetto. Diceva che era stupidamente borghese nella sua ottica seduttrice e ad un tempo vanesia, e meschina nella sua essenza ingannatrice. Pur non essendo una bellezza da far girare la testa, aveva dei tratti molto fini, e un incarnato etereo, picchiettato di efelidi. Il volto, irregolare e lentigginoso, aveva uno charme particolare, forse per gli occhi verdi, se non per quel nasino all’insù. Il suo vero fascino, però, era interiore. Era una grande bellezza, dentro. Un cervello e un cuore come pochi al mondo.
Sono stato, mio malgrado, un libro aperto per lei. E a lei devo tanto, forse più di quanto pensi. Per me, invece, il suo libro è rimasto per metà non letto, e non solo per mia incapacità. Quando decideva che era ora di piazzare il segnacolo, non c’era verso di andare oltre. Labbra serrate e occhi persi nel vuoto o abbassati. Oppure, malinconici e dispiaciuti, fissi nei miei, testardamente interrogativi.
I frutti delle nostre lunghe chiacchierate, seduti su una panchina o una spiaggia o un divano, o in cammino senza meta, o in un treno o un vaporetto o in un letto, li ho assaporati nel tempo, dopo averli ben digeriti. Avrei voluto dirglielo, dirle quanto le fossi grato, ma sparì d’improvviso e non l’ho mai più rivista. Mi piace pensare che viva felice, ovunque sia, e che ogni tanto, quando non ha nulla da fare, e la mente sorvola sul passato, il mio ceffo le si mostri facendosi largo nella baraonda dei ricordi, non fosse altro per dirle: “ti voglio bene”.
Guardo il gabbiano e lui guarda me. È piccolo e bello, aggraziato e dal becco affusolato. E i suoi occhi sono vispi. Sorseggio il caffè, ormai freddo, e guardando verso l’orizzonte, mentre la mano in tasca controlla la presenza delle due monete per poter pagare, prendo consapevolezza che nemmeno Eufrasia, se avesse potuto essermi vicina, avrebbe potuto impedire a me stesso di ridurmi così male.