La luce intensa si tinge di porpora, mentre scivola attraverso le alte vetrate e inonda i mosaici sul pavimento dell'Aula. Tutto intorno, volti di pietra, antichi scranni e maestose colonne. La pozza vermiglia di sole luccica sul marmo e mi ricorda il sangue di Geber che mi cola fra le mani, mentre gli stringo il petto squarciato. Non riesco a capire le parole del giudice: l'eco della sua voce stentorea si confonde in una cacofonia che assomiglia alle urla di Lenore. La rivedo che corre verso di noi e gli sorregge suo capo morente. Dio, se li amavo.
Ecco, scende il silenzio; là fuori, di nascosto, sta calando la notte. Non riesco a capire le parole.
Cupa e oscura è la torre: tanto tozze e sgraziate sono le sue volte, che incombono opprimenti sul petto, quanto aeree e slanciate erano le guglie limpide del tribunale, dove la mia sorte fu decisa. C’è una stanza circolare, da basso, dove vivo modestamente. Tutti i giorni non vi mancano né cibo né acqua; vi è il conforto di un camino, la cui fiamma è alimentata dall’esterno (come, lo ignoro) e rimane sempre accesa. Ho un giaciglio, delle vesti pulite, e tutto quanto serve per provvedere alle mie povere necessità materiali. Da una parte si attorciglia la stretta spirale di una scala a chiocciola: di là si giunge nell’unico altro ambiente di questa prigione, lo scrittoio. È, questo, un luogo sollevato di una decina di metri dal terreno, corrispondente alla cima della torre: strette aperture quadrate fungono da finestre e fanno entrare la luce. Ma sono troppo in alto perché possa scorgervi attraverso più di un modesto squarcio di cielo bigio e la loro presenza non mi è in alcun modo di conforto; al contrario mi ricordano, nel modo più crudele, che esiste un mondo esterno, dove l’aria è fresca, non v’è odore di muffa e il sole scalda la pelle chiara.
Nella stanza in cima alla torre si trova un elegante scrittoio, corredato ad uno scaffale di legno scuro. Carta e inchiostri vi abbondano, tanto che potrei passare tutto il resto della vita a scrivere incessantemente, giorno e notte, senza paura di esaurire le mie scorte. Una sedia, una brocca d’acqua e un lume completano l’arredo, lasciandomi senz’altra compagnia che quella delle nude pietre, ruvide e fredde. Non v’è nulla da fare, qui, oltre a ricordare e scrivere. Non ricevo visite. Non vengo interrogato, nessuno si interessa al mio giudizio, o alla mia condanna, e non so più distinguere l’uno dall’altra.
Forse questa è già la mia pena: sulla bianca pergamena, come orribili falene, si gettano i miei poveri ricordi, uscendo allo scoperto senza che io possa impedirlo. L’impulso di scrivere è violento, subdolo, maledetto: le mie mani si stringono alla penna; come un naufrago, si aggrappano brandello di relitto che le tiene a galla. Mille volte ho desiderato la morte e l’oblio: ma il mio spirito rifiuta questa facile pace e mi impone il supplizio di scrivere, e ricordare, senza tregua. Sul pavimento si stendono confusi i rotoli di carta, ricoperti da grumi fitti di lettere, nere come le ombre che mi opprimono. Vi è tutto: quel che ero, ciò che sono divenuto. L’ebbrezza della Rivoluzione, i suoi orrori. Le speranze infrante, i sogni mutati in terrifici incubi; e il sangue innocente rappreso sulle mani, che solo desideravano giustizia.
Geber, dall’animo nobile e dal cuore impavido, giace riverso sul grembo della dolce Lenore; lei ha i capelli sciolti, si inzuppano del sangue del marito che le ho ucciso. Il mantello scuro è scivolato dal viso del mio giovane amico, antico compagno e infedele alleato, svelando l’inganno con il quale egli aveva inteso nascondermi la sua identità, sapendo che mi sarebbe stato impossibile alzare la mano su di lui, più caro di un fratello.
- Perché, Geber? – sussurrano le mie labbra aride, la gola disseccata, il petto torto nella morsa di un groviglio soffocante intorno al cuore. – Perché proprio tu?
Lui rantola; morendo, gorgoglia parole insieme al sangue, che sporca il vestito bianco della sua amata: - Ho tradito la causa, merito questa morte... In te solo credetti, amico… ma ora fuggi.
Geber spirò e io fuggii: ma non seppi andare lontano. La notte oscura mi avvolse nei ricordi tormentosi; in piedi osservavo il fantasma di Lenore che vive nella mia mente, e le gocce di sangue risalire il filo dorato dei suoi capelli, scintillanti ai guizzi mutevoli della candela. Rimasi immobile per ore, forse per giorni: non mi accorsi di loro quando vennero a prendermi. Non seppi mai cosa avesse detto Lenore, di quella notte maledetta, e non lo compresi durante il processo. Ma la verità, che insozza il mio cuore, si è infine riversata in questi fogli, l’ombra del mio peccato raggrumata nelle forme contorte di lettere e parole.
Ho scritto la mia condanna. Dalla scala giungono i passi svelti degli aguzzini. Li segue il giudice, avvolto nelle sue vesti immacolate: reca una spada sottile, altri porteranno ceppi e catene. Li attendo qui, reo confesso, e con loro la quiete.