Il titolo non è corretto: il positivo esiste in funzione di un negativo. Sono sinossi l’uno dell’altro quindi la prosecuzione di questa pagina dovrebbe essere il negativo. Vado avanti per la strada che le parole mi consiglieranno. La pagina che leggerai è lo schema di quello che ho intenzione di scrivere.

Queste sono le tracce. Mancano le scansioni temporali. Sono lì nella mia testa come disse quel tale battendo le mani sulle natiche.

 

Nel bene non c’è storia. C’è continuità della vita, speranza e cielo. Per il sangue, le lacrime c’è sempre spazio e tempo.

Sono sopravvissuto. L’uso di questa parola è voluto perché le circostanze ambientali del 1945 non consentono altro.

Mia madre quanto ha dovuto spremere dal suo coraggio per difendermi? Mi piacerebbe sapere qual è stata la mia parte, se ho contribuito e come.

Ho vinto la battaglia primaria per la vita. Poiché i vincitori hanno sempre ragione, (non mi piace quest’affermazione ma mi adeguo) non aggiungo altro.

Dei miei primi due anni di vita, dieci mesi li ho spesi all’ospedale di Niguarda tra i rachitici. Oggi quella malattia non esiste più. Sono stato curato bene e sono nel settantesimo. Farò quanto possibile per proseguire.

In quel tempo mia madre conobbe Gino: uno sconosciuto violento, spettro di una guerra che forse non voleva e che pensava alla giustizia in termini di compensazione. Lui era la vittima quindi per dare equilibrio al suo essere nel mondo, doveva angariare qualcuno. Era il suo riscatto nell’economia metafisica del vivere. Il gioco fu facile: lo spettro di una possibile denuncia per collaborazionismo alle brigate partigiane di Milano la piegò.

L’istinto di sopravvivenza di cui aveva sentito parlare nella sua infanzia la votò all’assurdo: affidare il figlio a un’estranea. Incontrò Lina e, complice il colpevole comportamento delle suore dell’ospedale dove nel frattempo fu ricoverata con me per pertosse, l’insostenibile trovò sostanza.

Le suore censuravano pesantemente il suo comportamento, la sua resistenza a giustificarsi. Il loro canone non capiva, non accettava la diversità. Attuarono azioni per separare la madre dal figlio affinché quest’ultimo fosse accolto in una famiglia “dai sani principi cristiani”.

Partì per la Svizzera.

Nel 1951 tornò a Milano per riprendersi il figlio.

L’ostilità che incontrò era superiore alle sue forze e fuggì. Era un’esperta in fughe. L’azione compiuta si chiama abbandono: nella contabilità della mia vita era la seconda volta.

Generalmente questa parola suscita scandalo. Quando garantisce la sopravvivenza cosa suscita?

Se non ricordo male, ci fu un tale che gridò poco prima di morire: “Elì, Elì, lemà sabactani?” (Padre, Padre perché mi hai abbandonato?). Su quel tema si costruisce da duemila la storia di tanta parte dell’umanità.

La stanai dal suo rifugio il 17 novembre 1997.

Considero comunque questi avvenimenti una positività: non per un’ipocrita, pietistica rilettura di quegli atti, ma per imparare che ci sono circostanze che impongono decisioni altrimenti irricevibili. Per sopra-vivere (viverci sopra) sempre e comunque. Perché la vita in certi giorni è veramente bella.

Successive considerazioni agli anni della maturità.

Le strade di Lina e del sottoscritto s’incrociarono il 7 marzo 1947 per separarsi ventitre anni dopo. Solo allora ho cominciato il mio viaggio verso la verità. Bellissimo perché non finisce mai.

Questo è un positivo: la somma algebrica di tutti gli avvenimenti che ci hanno legato dà questo risultato. Lo dico con convinzione. Se adesso scrivo, lo devo alla sua caparbietà. Qualche asprezza c’è stata ma questa è un’altra storia.

Intorno ai cinque anni ho conosciuto la fame. Mia figlia non la conosce e mi auguro di aver fatto il possibile perché non la incontri. Spero che non conosca mai il morso fisico che prende la bocca dello stomaco, il sale delle lacrime conseguenti e com’è devastante la sensazione d’impotenza.

 

 

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