Sotto terra non ci sono solo morti. Lo spazio del metrò brulica di passi nel silenzio delle voci.
Camminano ma non vanno.
Il treno arrivò in orario e come d’abitudine l’uomo, con appresso il carrello, prese posto nel vagone
di mezzo sul sedile affianco ad una delle porte. Nello stesso erano seduti un uomo, nella fila innanzi
alla sua, e una donna dall’altra parte ma vicina abbastanza da poterne scorgere i particolari del viso.
Lo guardò per un istante, il tempo del fischio che annuncia la chiusura delle porte, prima di rinchiudersi in se stesso.
Stava con indosso la pettorina gialla a strisce argento che perdevano la loro lucentezza nel riflesso scuro dei finestrini. Diede un’occhiata al polso e come tutti i giorni pensò che tra un’ora esatta sarebbe stato a casa. Una volta arrivato sapeva che non avrebbe trovato Anna e che lei al ritorno avrebbe dovuto fare attenzione a non svegliarlo e forse prima d’uscire di nuovo si sarebbero visti, il tempo d’un saluto.
Lanciò un’altra occhiata alla donna, poi si passò una mano sul volto, come a rigenerarlo, e assunse la postura consueta con braccia e mani distese a toccar le ginocchia. Quella maniera se la trascinava da quarant’anni. Era stata la zia ad imporgliela, a fargli capire che era bene stare sempre dove si tocca. Si preoccupò della sua educazione più della madre portandolo con sé un giorno a settimana nella parrocchia a dieci minuti da dove abitavano, da buon chierichetto quale doveva essere.
D’improvviso alzò lo sguardo. Il vagone malaticcio assunse un aspetto nuovo. L’uomo allungò il collo con un piccolo sforzo per vedere fuori: il treno stava percorrendo un tratto all’aperto, e rimase a fissare come si faceva giorno, il riflesso della sua figura fluttuare veloce nel cielo blu tra le luci lontane dei lampioni ancora accesi - minuscoli insetti gialli – che gli scivolavano via di dosso, finché non rivide se stesso nello specchio di fronte, coperto per metà dal carrello, e di nuovo il neon del vagone, pallido e smorto come le pupille d’un cieco, pesargli sulle palpebre.
Notte o giorno la luce nelle stazioni è la stessa.
Aprì gli occhi che il treno era di nuovo in galleria. Aspettò che si fermasse per sapere dove si trovava, anche se dal numero di passeggeri indovinò che poche fermate mancavano alla sua.
Fu lì che entrò una donna che gli si posizionò a due passi, con un passeggino e, stretta nella destra, la mano di un bambino di otto nove anni al massimo. Reggeva il telefono tra guancia e spalla. Per un po’ farfugliò qualcosa, con aria grave, a proposito dello stato di salute del neonato. Per ben due volte ripeté la parola dottore. L’uomo si sporse un poco: il piccolino, disteso su un soffice piano bianco, era bardato quasi fosse dicembre. Il più grande invece pareva disinteressarsi delle preoccupazioni materne. Dalla cartella in spalla tirò fuori una macchinina giallo splendente e subito la posizionò sulla sbarra verticale facendola andare su e giù, simulando con un verso quello del motore - un suono debole rispetto ai cavalli che doveva avere - e d’un tratto parve preso dalla vista della grossa scopa messa con le setole all’aria, tanto da avvicinarsene e lanciare poi un’occhiata all’uomo che le stava dietro.
Allora immerse il volto nel collo del pile e guardò il bambino con profondo interesse. Era elegantissimo: calzoni di velluto marroni, pullover blu scuro, camicia bianca e giubbotto in tela con collo alto. Lui gli restituì lo sguardo con grandi occhi azzurri. Una frenata fece vibrare il pavimento, e il mezzo rallentò progressivamente. Alcuni passeggeri in disequilibrio si sfiorarono per sbaglio, altri rimasero ben saldi alla sbarra senza correre alcun rischio. L’uomo s’accorse che la madre non s’era mossa da lì: teneva i manubri della carrozzina girando spesso i palmi sulla gomma, pronta a scattare come il motociclista al verde. La porta centrale, vicino alla quale l’uomo e la donna s’erano piazzati, decise di non funzionare più. Mentre tutte le altre si chiudevano, nonostante l’insistenza del macchinista, quella non voleva proprio saperne. I passeggeri cominciarono a guardarsi, desiderosi di risposta; c’era chi smaniava, chi seguitò nella propria lettura, chi nel battere tasti su uno schermo. Un gruppetto si mosse verso la leva manuale su un lato delle porte, con l’intento di provare a tirarla. Uno prese coraggio ma non servi a nulla. La donna nel frattempo aveva continuato a parlare con lo stesso tono, senza accenni alla situazione di stallo in cui si trovavano. Un’altra si toccò la fronte con le dita unite a becco: “Perché…perché proprio a me?” Tutti fermi. E lì, il bambino, forse stufo, s’avvicinò alla madre: “Guarda” le disse, “sono dei rami”.
Lei sbirciò verso la direzione indicata dal figlio.
“L’hanno fatta con gli alberi?” insisté il bambino. “Non ti sembra quella delle streghe?”
Due volte la madre fece correre lo sguardo verso il carrello dell’uomo per ritornare poi nei propri affari; e il bambino che sperava forse lasciasse perdere il telefono e rallegrarsi per la scoperta…
“Per favore, Mattia…” disse, coprendo con la mano il microfono del telefono.
Il figlio a quel punto le tirò il bordo del vestito: “Ma guardala!”
“Piantala, mio Dio! È solo una scopa. Ce l’abbiamo uguale anche a casa.”
Per l’uomo fu impossibile in quel momento distogliere gli occhi dall’espressione apparsa ora sul viso del bambino. Poi accadde qualcosa. Lo vide avanzare di nuovo verso di sé. Impugnava la stessa macchinina gialla e iniziò a passarla sopra i bordi del carrello, tra gli attrezzi di lavoro, facendo di quegli spazi un circuito. La madre, nell’attesa, controllò il piccolino, dando una carezza sui vestiti in lana. Il bambino continuava. Nemmeno il macchinista che dopo pochi minuti giunse con una chiave a risolvere la situazione, o il rumore conseguente al ripartir del treno simile al tambureggiare d’una tachicardia seppero distrarlo. Girava aggrappandosi alla sbarra verticale con quel suo fare un poco saltellante, curandosi solo di guidare il giocattolo sul bordo rotondo del cesto in cui stavano i rifiuti. Il sacco era nero e finirci dentro era cadere nell’ignoto. Il bambino lo sapeva bene, e non perdeva la concentrazione; anche quando gli capitò di inciampare sopra le invadenti scarpe di cuoio dell’uomo continuò a farla girare senza fermarsi.
Alla fine ci pensò la madre ad afferrarlo alla fermata successiva per portarlo fuori, prendendolo per un braccio, cogliendolo di sorpresa in modo che la macchinina gli sfuggì nel sacco. L’uomo fece per alzarsi. Con l’intento di sollevarsi appoggiò la mano alla stessa sbarra di ferro. La sentì tiepida, sotto la pelle, fin nelle ossa. Rimase lì. Madre e figlio erano già spariti.
Una volta sceso riprese i guanti per recuperare il giocattolo, senza dare troppo nell’occhio. Sopra le scale lo attendeva Manuel, di fronte alla stanza di deposito. Entrarono.
“Tutto bene, Anto’? Tutto a posto?” fece con un mezzo sorriso appena lo vide.
Annuì senza guardarlo, impegnato a togliersi tutto e riordinare la roba.
“Hai una faccia strana…” ribadì senza perdere quel sorrisetto
“Ma niente. Non è niente.” Prese la giacca e con una mano spinse nella tasca in profondità la macchinina, e ne sentì le linee, le forme degli specchietti, i tergicristalli appiccicati al vetro e con le punte dei polpastrelli entrò dentro il veicolo dalle fessure dei finestrini anteriori; la strinse formando come un pugno.
“Che fai adesso?”
“A dormire” rispose. Indossò la giacca affrettandosi verso l’uscita.
“ Che ci riposiamo solo per lavorare non lo dici oggi Anto’, non lo dici?”
“A stasera” disse. Nient’altro.Camminando, presso lo spiazzo in fronte al portone, interruppe l’abbeverarsi d’un piccione che
dispiegò le ali, alzandosi in volo verso la sottile striscia di sole.
Mentre infilò la chiave più corta nella serratura pensò che l’indomani avrebbe preso lo stresso treno.
Che sarebbe stato lì, stavolta con la macchinina gialla dietro di sé. Non si poteva mai sapere.