Indifferente per lungo e larghi versi, per tratti. Nath guardava dalla finestra la soap opera della vita scorrere. Una miscela dal gusto nicotina e fiori appassiti. Fiacca scendeva la luce della lampada sulla vita, sugli appunti di medicina, su quel vecchio ritratto in cornice; facendo ombra su quel miscuglio di pensieri, di idee scolpite nel suo cervello pensoso. Quella membrana grigia che tentava di conservare ogni volta, che gli permetteva di rimanere in vita. Giacché qualcuno gli chiedesse di tanto in tanto, cosa pensasse, o stesse facendo; Nath sembrava non avere riposte. Osservava, e quel lugubre meccanismo di interrogatorio prendeva forma insopportabilmente; come il ticchettio dei tasti di una macchina da scrivere; senza sosta, nella sua marcia verso il ventre. All'interno di chissà quale circoscrizione investigativa. Le rotaie del treno battevano costanti, lasciando un calore ferroso, che ne scolpiva il suono, e irritava la barba. Un meccanismo di produzione, uno strano sistema di ingranaggio condotto da un operaio dalle braccia forti, che colpiva senza cessare, bagnandosi di sudore. Bolliva, bolliva dando l'impressione di poter esplodere. Dove stesse andando quel treno, o dove entrasse una volta fuori dalle rotaie; del perché stringesse quel ventre, quella rosa di spine che squarciava, nessuno lo sapeva. Nath si pestava i piedi da solo temendo di poter inciampare. Nelle sue giornate libere amava trascorrere la propria compagnia col vento. Nei freschi corridoi che affacciavano sulle riserve, sui giardini che tanto amava guardare e che prima ancora furono teatro esclusivo dei monaci. Poi della biblioteca, dei suoi passanti. Il bianco dei corridoi era di un bianco assordante, che stordiva, assumendo di significato a mano a mano, come se potessi scriverci o vederci su quello che volevi. Era questo il motivo per il quale lo imbrattavamo, facendo incazzare qualcuno. Nath ci vedeva fiori con lo stelo lungo e spessi petali colorati. I pavimenti opachi e grigi davano l'impressione di esser bagnati. Nelle calure estive sembravano rosa antico. Ricordavano le fragole ed il gusto degli amori andati. C'era una piccola crepa nella quale si staccava una parte della parete, e i ragazzi abitualmente ci andavano a fumare qualche tiro; evitando così il giro lungo del perimetro per uscire all'aperto. Una scritta in alto diceva: "Ogni uscita é un entrata altrove". Si vedevano gli studenti passeggiare. Le ragazze carine avevano l'aria felice del weekend che stava per arrivare. Quelle meno belle gettavano un occhiata alla strada, sembravano spaesate, come inghiottite dal trambusto. Poco importava loro del fine settimana. Il semaforo segnava rosso, le macchine coi motori in stallo rombavano frenetiche verso chissà quale avvenire. Nath mi chiese una sigaretta, aveva finito il suo tabacco Lucky strike rosso. Fu così che diventammo conoscenti. Parlammo, e parlavamo di donne, di libri, di musica, Battisti, di donne, di donne... Gli porsi il mio bicchiere, bevevo gin con acqua tonica e scorza di limone. Il weekend era alle porte anche per me. Ero pronto a gettarmi nella frenesia, negli eccessi, nella libidine che provavo nello sfidare la morte consacrando la gioia della vita. Nel mistero dei discorsi con le sconosciute; nei giri del motore sull'autostrada al ritorno, verso casa. Nel traffico umano, nelle luci, negli sballi, negli occhi rossi della gente, nelle luci rosse e blu degli sbirri che mi fissavano ai posti di blocco. Nel mio vestiario nero, nelle camice strane, negli anfibi di pelle sporchi che si sporcavano. Qualche soldo in tasca, nei culi, nelle tette delle ragazze che sembravano enormi, nelle loro gambe che disegnavano il mondo. Nei miei amici che sembravano più giovani di qualche anno, nella musica che ci accompagnava, e che era nelle nostre teste quando camminavamo verso tutto questo, senza che nessun dj scegliesse la colonna sonora per noi. Quel film l'avevo visto e rivisto mille volte, ma non mi stancava. Mi entusiasmava come la prima. Proposi a Nath di raggiungermi in centro verso le undici. Poco prima dello scoccare di un nuovo giorno. Gli avrei presentato i miei amici, e qualche ragazza dalla faccia dolce ma non troppo. Non diedi lui troppe spiegazioni su quello che avremmo fatto, preoccupandomi che non gli piacesse affatto quello che da lì a qualche ora avremmo improvvisato. Nath sembrava entusiasta, rise e con un cenno fece sì con la testa. Raccolse i filtri, le cartine e andó via. Sparì, in quel semi buio che stava calando, in quelle prime ore della sera che sembrano diventar nostalgiche, ma al tempo stesso speranzose, curiose, per quello che ci avrebbero successivamente riservato. Il custode spazzava le ultime cicche, ed uno strato polveroso si alzava dal pavimento bianco. Andó via anch'egli. Non sembravamo avere troppo in comune. Presi il treno, percorsi qualche kilometro verso casa, feci una doccia, mangiai qualche boccone che mamma aveva teneramente preparato per me; con la sua dottrina di genitore, speranzosa del fatto che lo consumassi. Lasciò un biglietto."Non fare troppo tardi stanotte, sono fuori con papà, mangia". Di sotto c'era già Seth che attendeva in auto coi fari accesi. Passò la canna, mentre lo stereo suonava musica commerciale. Cambiai con disinvoltura, lui non ci fece caso, cadde la cenere. Passammo a prendere Roger, Luis, Keira. Ambra attendeva già lì. Il tempo di baciarla sulla bocca e Nath mi diede una pacca sulla spalla. Aveva una birra tra le mani che non doveva essere la prima; una faccia diversa, un'aria coinvolta. Vibrava. Una mattina fu l'inverno pieno. Il pavimento gelido specchiava le sciarpe, le facce svampite dal freddo, gli indumenti pesanti, il rossore della pelle e le screpolature. Non vedevo Nath da giorni, forse settimane. Avevo con me quel libro di poesie che mi aveva prestato, e quella camicia rossa che tanto gli piaceva. Volevo regalargliela. Lo trovai alle panchine, leggeva un quotidiano mentre sorseggiava caffè all'angolo del bar. Gli occhiali Rayban neri coprivano le rughe. In mano, una sigaretta rollata male bruciava, bruciava in fretta a causa del vento codardo, che sembrava non volersi immischiare col fumo. Aveva una faccia provata, spenta. Il treno continuava il suo percorso emotivo tra i ricordi e lo squallore delle aspettative. Tra gli spazi invasi di contorno da qualcuno, e mai più riempiti, abbandonati. Quei vuoti, quei silenzi, quegli stati d'animo che necessitavano bisognosi, con la cadenza implosiva. Un urlo, una speranza, una notte gelida, una donna, del vino. Mi disse: "Non esco da giorni, forse settimane". Mi porse gentilmente il suo tabacco, e secco disse: "Domani è sabato, andiamo in centro".
Avevamo molto in comune eppure eravamo diversi.