Ero arrivato in Australia dopo essermi documentato a fondo su questo continente,  diverso da tutti gli altri,  e sui suoi abitanti, specialmente sui nativi. Gli aborigeni, come vengono definiti. Un popolo che a differenza dei nativi americani ha saputo tener testa all’uomo bianco, senza particolari guerre, conservando intatta la loro cultura e il modo di vivere. Ora convivono insieme e per fortuna gli australiani bianchi hanno riconosciuto nei nativi una fonte di cultura che non deve essere perduta. Ci sono, tuttavia, delle situazioni che si potrebbero evitare, ma fanno parte ormai del modus vivendi dell’uomo moderno.

Dopo aver visitato le maggiori città e non avendo trovato nulla d'interessante, sono giunto alla conclusione che le grandi città in un modo o nell’altro sono tutte uguali, qualche variazione di paesaggio o panorama, ma nelle architetture e nel modo di vivere non sono diverse une dalle altre. Quello che distingue una nazione dall’altra sono: la storia e le usanze dei suoi abitanti.

Il nostro gruppo di viaggio decise che era il momento di inoltrarci nell’interno del paese, nelle foreste e le grandi pianure dove vivevano liberi i nativi. Andammo con due jeep sempre accompagnati da una guida, non era il caso di andare da soli in un territorio sconosciuto e ancora semiselvaggio. Visitammo alcuni villaggi, ma era fin troppo evidente che la gente che ci abitava era abituata ai turisti, tutto quello che ci fecero vedere sapeva di fasullo. Sembrava la rappresentazione di uno spettacolo messo su ad arte, proprio per le visite dei turisti. Un po’come fanno nelle isole polinesiane, con le collane di fiori e le danze di gruppo eseguite da belle ragazze. Offrivano quello che il visitatore si aspettava di vedere. Io, invece, volevo un incontro reale con qualche personaggio che non fosse costruito.

Dopo aver  visti diversi villaggi ero scoraggiato, volevo tornare indietro, ma ero legato al gruppo e al tour programmato. Nell’ultimo avamposto della civiltà, come lo chiamò la guida, vedemmo le solite cose, un'offerta di artigianato locale, una danza eseguita da donne in costume, un pasto a base di insetti e piante sconosciute, spacciate come il cibo abituale degli indigeni, mentre nelle capanne avevo sbirciato e visto frigoriferi moderni e, tutti i cibi che si possono trovare nei supermercati. Mentre ero intento a cercare di capire cosa c’era nel mio piattino di plastica intravidi, lontano, seduto a terra presso una capanna, un uomo che se ne stava da solo a fissare l’orizzonte. La sua figura immobile come una statua, mi colpì. Aveva una dignità di portamento insolita da riscontrare in un anziano indigeno. Il suo sguardo conservava un certo non so che di altero e fiero, immaginai fosse stato nel passato un capo, uno di quelli che erano abituati a farsi obbedire. La sua posizione distaccata dagli altri denotava la sua volontà di non cedere al modernismo, di non lasciarsi coinvolgere in quelle pagliacciate per turisti che lui evidentemente non approvava. Mi avvicinai con il dovuto rispetto e, senza dire una parola, mi sedetti accanto a lui, sapevo che non avrebbe detto nulla, stava sulle sue, senza dire nulla. La sua faccia era un romanzo di vita vissuta, non servivano parole, in quella fitta rete di rughe c’era tutta la fierezza del suo popolo e della sua difficile esistenza. Rimasi a osservarlo con discrezione, non era certo un fenomeno da circo e non volevo si sentisse a disagio sotto il mio sguardo indiscreto. Per rompere il ghiaccio, sempre senza parlare, era inutile non ci saremmo capiti per la differenza di lingue, presi una sigaretta e gliela porsi con un gesto semplice, da amico, senza dire nulla. Lui volse appena il capo e il suo sguardo si fece umido, dolce quasi, nascosto da una folta capigliatura e da un’altrettanta barba tutta bianca. Le pelle era come il cuoio grezzo, scura e rugosa, solo gli occhi erano chiari e riflettevano parte del cielo. Ci mettemmo a fumare e, insieme guardavamo  gli altri del gruppo, che applaudivano lo spettacolo di  danza. Poi, quando finirono le musiche e le danzatrici si fermarono, i nostri sguardi s’incrociarono e vidi un lampo che passò veloce in quegli occhi scuri, come un’onda di collera che stava per coinvolgerlo, ma che invece, subito passò. Si rimise a fissare il vuoto davanti ai suoi occhi non degnandomi di uno sguardo. La guida suonò il clacson per richiamare quelli che si erano allontanati dalle macchine e capii che era giunto il momento di ritornare, era già pomeriggio e la guida non voleva che facesse notte con noi ancora in piena zona selvaggia. Prima di andarmene volli stringergli la mano, aveva una stretta forte e asciutta, mi seguì con gli occhi fino a, quando la macchina della guida partì, seguita dai canti delle donne, poi chinò il capo e tornò a restare immobile sotto il sole che stava tramontando sulla sua terra perduta.

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