Alzataccia di buon’ora la settimana scorsa.

In altri frangenti sarebbero scesi giù tutti i santi del calendario gregoriano dal momento che sono solito alzarmi a mattina inoltrata, lo stato di pensionato me lo permette, ma venerdì scorso era una giornata molto particolare per me, visita semestrale di controllo, un rituale che si ripete da ben dieci anni, cioè da quando ho subìto un trapianto di fegato.

Ogni volta questa giornata suscita in me  un sentimento di odio e amore nei suoi riguardi, vorrei non  venisse mai ma l’aspetto con impazienza. La paura di trovare qualche valore alterato delle  analisi fatte è tanta, memore di quel (fortunatamente) lontano periodo dove tutto andava storto, la morte era a un passo e bisognava solo aspettare, aspettare impotente, aspettare un angelo donatore che riportasse il sorriso sulle mie labbra e su quelle dei miei familiari.

Di contro è tanta anche la voglia (o la speranza) di  veder premiato il tenore di vita controllato al quale mi sono votato  dopo la grande paura, con delle analisi che rientrassero o quantomeno si avvicinassero alla normalità.

L’attesa per entrare in visita era non dico stressante, ma come minimo preoccupata, mi trovavo in buona compagnia in quanto il venerdì è il giorno dedicato alle visite di controllo dei pazienti trapiantati. Il mio carattere silenzioso mi portava ad ascoltare, senza volerlo, i discorsi dei presenti che vertevano principalmente sulle loro condizioni di salute, ma  mentre alcune davano enorme soddisfazione a chi le raccontava e a chi ascoltava, altre incutevano un po’ di preoccupazione.

Diversi pazienti dichiaravano l’insorgenza di qualche problema di salute più o meno grave, più o meno preoccupante, che mettevano in allarme i presenti me compreso, soprattutto se questi pazienti erano trapiantati da meno tempo del sottoscritto. Ormai ho superato  i dieci anni di “nuova vita” e nella mia mente balena  perennemente il solito dubbio: “quanto può durare?”, “cosa mi riserva il futuro?”.

Intanto il tempo passava e l’attesa era diventata un tantino snervante, uscivo dalla sala d’aspetto e mi rifugiavo nel corridoio per evitare di ascoltare altri “problemi di salute”, fino a quando ho sentito scandire  ad alta voce il mio nome.

Preoccupato e a passo  veloce sono tornato indietro e mi sono diretto davanti alla porta accostata della sala visite, dalla quale intravedevo il medico concentrato su un foglio davanti a lui. Mi ha  invitato a sedermi mentre continuava a tenere i suoi occhi abbassati sul foglio, nel quale sbirciando un pochino  ho intravisto il mio  nome. Erano le mie analisi.

Ho cominciato a fissarlo  cercando di carpire qualche smorfia dal suo viso che  avrebbe potuto farmi  intuire qualcosa, niente di tutto ciò, sembrava una statua di marmo.

Il cuore cominciava a farsi sentire con veloci battiti mentre un groppo in gola affannava il mio respiro,  sembrava un’eternità che fossi  su quella sedia. Ad un tratto appoggiandosi allo schienale della sua poltrona e rivolgendosi a me ha detto:

”Come ti senti?”.

“Perché mi fa questa domanda?” ho pensato prima di rispondergli “mai stato così bene”. 

“I tuoi esami sono perfetti – ha continuato - e il tuo fegato è ok. Devi solo stare attento ai trigliceridi, sono leggermente alti.”

Ho tirato un sospiro di sollievo e le mie labbra hanno ritrovato il sorriso.

Dopo uno scambio di domande e risposte chiarificatrici con il medico e fissato il nuovo appuntamento semestrale  l’ho ringraziato e dopo averlo salutato sono uscito attraversando la sala d’aspetto mostrando  il pugno con il pollice alzato ai presenti  ancora in attesa della loro visita.

Ero felice, e al bar del nosocomio mi sono concesso  un gustosissimo cornetto alla crema, sperando vivamente che il signor Diabete non si sia arrabbiato più di tanto.

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