"U frittularu” spunta come un fungo fra i negozietti del mercato popolare, in un angolo, silenzioso e taciturno.
Non abbannìa come i fruttivendoli o come i venditori di pesce. È lì, con il suo panaro coperto da una mappina, un canovaccio a scacchiera rosso- bianca. Infila la mano misteriosamente dentro il panaro su di un cavalletto, portando con se una manciata di “ciccioli” e con un gesto rituale le deposita sopra un piccolo foglio di carta oleata (anticamente, prima che fosse stata inventata questo tipo di carta, si adoperava le foglie di fico o noci) poggiata nella mano sinistra dell’avventore che accerchia questo particolare deschetto.
É la “frittula”, avanzi di cartilagini animali fritti nella “saimi” (strutto).
Verso il XV secolo, questi scarti di carne erano originariamente un prodotto della lavorazione dello strutto “saimi”, usato dai palermitani per friggere, prima che i conoscenti ebrei ci abituassero ad usare l’olio d’oliva o, se preferito più leggero, l'olio di semi vari.
La “saimi”, dallo spagnolo “sain”, prodotta nel vecchio mattatoio del rione “Capo”, veniva ricavata dopo la bollitura ad alta temperatura dei residui, muscoli, cartilagini e tessuti molli del bovino. Il liquido prodotto, raffreddandosi, diventava condensato e bianco e successivamente riscaldato nelle casseruole, ritornava al suo stato originario.
Gli scarti ormai sfruttati subivano una preparazione speciale, soffritti con zafferano, pepe, foglie di alloro e scorza di limone. Così preparati davano origine alla “frittula”, convogliata dentro il “panaru” di giunco, appositamente preparato con coperte all’interno e “mappine” all’esterno per una migliore visibilità estetica, che manteneva caldo il prodotto per tutto il periodo della sua vendita.
Questa produzione, oggi ha cambiato procedimento, gli scarti di cartilagini e composti, non vengono più detratti alle parti dell’animale ma bensì alle sue ossa che saranno utilizzati per il brodo, il trattamento avviene nella identica maniera.
La “frittula” viene abitualmente venduta a “cartate”, che corrispondono alle porzioni, o immersa nel panino che generalmente è il “semprefresco”, e non viene smerciata a chilogrammi.
E la "saimi" oggi viene utilizzata pure per soffriggere la "meusa", polmone milza e scannaruzziatu a pezzettini, grassetti, che conditi con formaggio polverizzato o a scaglie, limone semplice o maritato con la ricotta,è considerato il piatto più prelibato dello street food palermitano.