Doveva essere un maschio. Lando, perciò, immantinente divenne Landa. Perché Lando? Per Fiorini. Perché Fiorini? Per le stornellate romane e perché piaceva a mamma.
Questa in breve la storia del nome che mi fu affibbiato. Dapprima non ci feci caso, in fondo un suono come un altro. Poi iniziai a vergognarmene, sotto tiro continuo degli amici. Per i quali fui sempre Panda. Per la mole, robusta o forte (secondo altri), e le occhiaie che ereditai da mia madre. Morta quando avevo tredici anni. Di lei non conservo alcun ricordo, se non quei cerchi scuri intorno agli occhi e quella sua voce acidula, assillante che mi sollecitava a trovar marito, e figliare. Unici veri scopi della vita di una donna.
Comunque, ciò nonostante, crebbi senza grossi complessi. Ed ebbi anche diverse storie, di solito abbozzate, zoppicanti o fugaci. Tranne una. Insomma la mia vita sentimentale e sessuale, tutto sommato, tenendo conto dei miei limiti e del target ristretto in cui potevo operare, non furono proprio malvagie. Diciamo mediocri, con picchi nella sufficienza stentata.
La scuola non fu un problema, così come l’università. L’intelligenza, pur non eccelsa, c’era, come, del resto, la volontà e la determinazione. Così a 25 anni già lavoravo presso una multinazionale della chimica, con sedi in tutto il mondo. Motivo per cui mi trovai a viaggiare in lungo e in largo. Con mia somma felicità. Vedere continuamente posti nuovi, gente di tutte le razze, atmosfere diverse, fu esperienza assai appassionante. Tra un viaggio e l’altro, come detto, le avventure non mancarono, finché tra un treno e un aereo, un motel e una sala d'attesa, non incontrai il mio destino.
Lui, tracagnotto e barbuto, capelli radi e occhiali a vetro di bottiglia, si chiamava Nando. Che non era poi tanto diverso da Lando, il che sembrava di buon auspicio. Ma quello che mi colpì fu la sua voce, melodiosa e potente. Suo cavallo di battaglia nella vita come nel lavoro. Per sbarcare il lunario, infatti, girava per i pub di terz'ordine di mezza Europa, snocciolando il classico immarcescibile repertorio italiano, supportato da un chitarrista e un pianista, scalcinati scarti di posteggia napoletana. Tuttavia, a dispetto degli specchi cui dovevano arrampicarsi quotidianamente, non sembravano in cattivo arnese. Anzi, il contrario.
Da quell'incontro non ci separammo mai più. E ne divenni amante e socia. Con paura, inizialmente. Poi con entusiasmo e frenesia.
La faccia nota delle mie valigie, assolutamente insospettabile, riuscì in poco tempo a piazzare cocaina, eroina, amfetamine e altre porcherie del genere da Gibilterra a S. Pietroburgo, passando per Messina e Reykjavik. I musici, con me, trovarono modo si poter espandere alla grande il loro vero lavoro e i guadagni. Che divennero, in breve, stratosferici.
La mia innata curiosità scientifica mi spinse, però, verso il baratro. Attratta da sempre dalle formule e dai miscugli, non so come feci, ma elaborai una miscela che, invece di bruciare il cervello e annebbiare i sensi, risvegliava i sentimenti sopiti, il coraggio e l’ardimento, gli ideali sepolti nei più lontani meandri della coscienza. E, pian piano, a poco a poco, nulla dicendo ai soci, la immisi in circolazione.
Gli effetti furono devastanti e sorprendenti. L’Europa fu scossa da ondate di tumulti, sommosse e barricate. Le bandiere rosse tornarono a garrire imperiose ai venti, e i vetri dei Palazzi tremarono e si frantumarono. Quel che sottovalutai, anzi per la verità non ci pensai nemmeno, è che quella ripresa di coscienze, quella rinascita di orgogli e pulsioni civili, quella enorme pulizia interiore, avrebbe posto le basi per un’immensa rivoluzione internazionale. Il che si stava avverando con virulenza imprevista.
I servizi segreti coesi non ci misero molto, rastrellando, corrompendo e torturando, a venire al bandolo della matassa. E, ricercata e braccata, fui costretta a rintanarmi in una baita fra le Alpi svizzere. Passai mesi cibandomi di formaggi e latte, e socializzando con gli stambecchi e gli scoiattoli. Ascoltando il vento e guardando il cielo e le nuvole che, misteriose e taciturne, scappavano chissà dove. Dei musici non seppi più nulla. Dileguati chissà dove.
Quando insieme allo spuntar del sole, di un bel mattino di primavera, terso e freddo, apparve Nando con le mani in tasca e la faccia trasognata sulla collinetta che dominava la baita, capii che era giunta la fine. Giuda stava venendo per intascare i suoi trenta denari.
I torturatori usarono di tutto per farmi svelare dove tenessi la formula e, quando, stremati, capirono che era stampata nel mio cervello, lo spappolarono senza pensarci sopra due volte.
Nando e suoi piccoli suonatori furono arsi vivi nella baita. Poi ricoperta da una colata di cemento, sulla quale ne piazzarono, a tempo di record, una di quelle prefabbricate. In meno di 12 ore il sogno era stato bruciato e dissolto nel vento, nelle nuvole. Con un mese di spaccio libero e reti unificate a paccottiglia e calcio, tutto ritornò nella normalità, anzi anche meglio di prima. Molto meglio.