Era successo all'improvviso, nello stesso momento in tutta la città. Nulla di ciò che era avvenuto durante il giorno, o nelle settimane precedenti, poteva far presagire un fenomeno tanto straordinario: la vita, anzi, trascorreva da tempo senza strappi, un po' monotona, un po' frenetica, come avviene in provincia. Poi d'improvviso tutti loro si erano ritrovati così, a muoversi e a respirare, senza preavviso; e adesso camminavano in mezzo alle strade, nelle piazze, con tutta quella confusione e nessuno che sapesse cosa si doveva fare.
Nelle prime ore il caos era stato totale, specialmente intorno ai monumenti, o davanti ai colonnati dei musei. Tritoni ancora fradici di spruzzi si guardavano in giro con l'aria smarrita, brandendo i loro tridenti con goffo impaccio, sempre sul punto di infilzare qualcuno per sbaglio. Ninfe e ancelle, imbarazzatissime, uscivano dalle fontane dei loggiati e dagli intarsi delle sale, cercando alla meglio di coprirsi; correvano dietro alle colonne, con i vestiti drappeggiati a panneggio, che lasciavano indovinare quel che non si vedeva direttamente. Lungo i viali era tutto uno sfilare di condottieri altezzosi, con i loro stendardi finalmente liberi di garrire, mentre ai bordi delle strade l'incedere fiero di eroi tardo-antichi suscitava il chiacchiericcio sommesso e acuto di un gineceo di muse, cariatidi, driadi e damigelle d'ogni tempo; le quali, essendo donne, e all'improvviso dotate di favella, non perdevano l'occasione di riferirsi molti secoli di pettegolezzi arretrati.
Fuori dalle chiese, la situazione era ancor più bizzarra: frullar di cherubini, svolazzare di angeli, processioni interminabile di santi, ammalati, miracolati, popoli eletti e antichi personaggi biblici affollavano il sagrato. Tutti approfittavano della situazione per regolare conti che aspettavano da centinaia d'anni: gli egiziani, grondanti d'acqua di mare, rincorrevano gli israeliti fra grida furibonde e un gran cozzar di lance e scudi. E i soldati romani, lasciate al loro destino quelle tre croci ormai vuote, si buttavano nella mischia distribuendo colpi di gladio e vivaci imprecazioni. Un fuggi fuggi generale di demoni, serpenti, bestie marine e mostriciattoli annunciava ogni tanto una carica di Arcangeli, determinati a ristabilire l'ordine in quella Babele, ricacciando all'inferno chi ci doveva stare.
Per tutto il giorno le cose andarono avanti fra le corse sfrenate delle statue olimpiche, finalmente libere di sgranchirsi le membra perfette, e il chiacchiericcio delle nobili dame, ferme in mezzo alle aiuole del parco, che guardavano il cielo turchese striarsi di porpora e pervinca. Era un giorno quasi di primavera, il cielo splendeva dopo la pioggia e sui giardini le gemme umide scintillavano come smeraldi; i boccioli erano piccoli rubini, dal taglio raffinato. Da lontano, in cima alla collina, giungevano come un brontolio sommesso le schermaglie degli eserciti campali, usciti dal grande bassorilievo del Municipio, che cercavano un posto dove sistemarsi con le loro macchine d'assedio.
Soltanto verso sera la confusione si placò. La maggior parte dei Personaggi si erano stancati di girovagare senza meta e si radunavano in silenzio, all'aperto: una folla muta che si godeva il cielo stellato e il tremolio delle galassie lontane, assaporando il tocco frizzante dell'aria della notte sulla pelle nuda. Ascoltavano, piangevano, respiravano: erano vivi.
Alle prime luci del mattino successivo, i più autorevoli fra generali, condottieri e sant'uomini si diedero da fare per governare la situazione. La folla dei Personaggi fu radunata, censita, organizzata: si assegnarono compiti e si impartirono direttive. C'era l'urgenza di definire regole comuni, consone ad una comunità di gente perbene. Prima di tutto, conveniva distribuire gli alloggi, secondo il censo, i meriti, le condizioni e i bisogni. Poi bisognava darsi da fare per assicurare il cibo: c'erano donne e bambini, vecchi e malati, che venivano dai soggetti religiosi, e non si contentavano più di guardare i pesci in mano agli apostoli con sguardo sognante, ma volevano ciascuno il loro pezzetto da mettere in bocca. Per il momento, si mise mano alle riserve della città, prendendo di mira supermercati e botteghe; ma tutti erano consapevoli che bisognava andare ai campi, trovar del bestiame, procurarsi il foraggio.
Poi c'erano loro, naturalmente.
Le persone, gli esseri umani, che non si poteva far finta di non vedere: immobili, paralizzati, bizzarre e sgraziate statue goffe, colte nelle pose più dozzinali e volgari. Una moltitudine di opere di scarso pregio, di cui si sarebbe vergognato anche un apprendista: ma fra loro c'erano anche pezzi di indubbio valore, carichi di sensualità, di vigore plastico, di pathos. C'erano giovani coppie di innamorati, colti nell'intimità di un bacio dolcissimo; e mamme con i loro piccoli, che trasmettevano alla materia inanimata tutta la forza e la vitalità di quello smisurato amore. Vecchi malinconici scivolavano verso l'orizzonte, lenti nell'impulso pietrificato di un faticoso movimento, e davano la mano a frementi fanciulli, che li avrebbero sopravanzati di tutto lo spazio consentito dal proprio braccino teso, ma si erano pietrificati mentre guardavano all'insù, per sorridere ai nonni.
Tutta quell'umanità, era un peccato che si sciupasse; fra i Personaggi, pur assillati da mille necessità materiali, molti si adoperarono per salvare i pezzi di maggior pregio, sottraendo le loro figure inerti alla pioggia e alle intemperie: gli esseri umani più fortunati finirono ad adornare i loggiati, gli atri, le gallerie e i porticati del centro, osservando la vita che lentamente ricominciava ad animare quella città, dove le cose si erano invertite, fermandosi un istante, e poi avevano ripreso il proprio corso come prima; più passava il tempo, più sfumato era il ricordo di un cambiamento, ormai impercettibile, presto dimenticato.
Le stagioni continuavano la loro giostra. L'autunno seguì l'estate; i raggi obliqui spingevano nelle case un dolce tepore, le sue folate dispettose gettavano ghirigori di foglie dorate sul viso di chi camminava per strada. Pioveva spesso, una doccia insistente di goccioline pungenti che scavava i volti e i corpi di quelli che erano stati lasciati fuori: anonimi simulacri, dai lineamenti ogni giorno più indefiniti, il busto ricoperto di rampicanti, le gambe chiazzate di muschio. L'inverno seppellì nella neve una foresta di fantasmi immobili, trasformandoli in sagome tozze e sformate; nelle case, al sicuro vicino al camino, i Personaggi ammiravano la bellezza di quelle figure che avevano salvato dall'incuria e dall'oblio, beandosi della loro grazia statica; osservandole, si sentivano parte di qualcosa di immenso e struggente, irrimediabilmente perduto.
Un anno, a primavera, ci fu l'idea di aprire un Museo, perché tutti potessero ammirare i pezzi più belli e il passato perduto potesse rivivere attraverso quei muti testimoni. Era una bella idea e tanti parteciparono con entusiasmo, donando gli elementi più prestigiosi delle loro collezioni; si fecero targhe in ricordo dei finanziatori più generosi.
In pochi mesi, le dieci sale della Gipsoteca della Memoria furono aperte; file ordinate di turisti venivano da lontano a vedere quella raccolta. Venivano da tutta la città e anche da fuori, dai villaggi vicini e dalla campagna. Arrivavano con gli autobus, i carri, o a cavallo: torme di artigiani e contadini, con il cappello in mano e lo sguardo all'insù, si aggiravano intimoriti nelle sale, facendo echeggiare scarponi e zoccoli sui marmi dell'atrio. Loro gli uomini non li avevamo mai visti: i bambini sgranavano gli occhi, indicavano, scalpitavano per toccare, e le mamme glielo impedivano, raccomandando silenzio, spiegando sottovoce, come un lontano segreto, quel che ormai nessuno quasi ricordava più.
Uno di quei bimbi, lo sguardo sgranato e attento, seguiva senza fiatare il serpentone di visitatori che si snodava lungo l'austero corridoio; ai due lati, la muta schiera di statue, indifferenti a tutte quelle attenzioni, continuava a compiere i suoi eterni gesti quotidiani. Ci fu un momento in cui lo sguardo del bambino si posò sugli occhi addolciti di una giovane donna, pietrificata nel gesto di chinarsi verso suo figlio, per sistemargli meglio il cappellino che gli copriva gli occhi.
- Mamma, mamma! - gridò il piccolo, facendo girare molte facce contrariate.
- Shh! Taci! - sibilò la madre, irritata. - Non si può parlare qui dentro.
Lui obbedì. E non lo disse a nessuno, che la statua gli aveva sorriso.