Ne aveva visti tanti. Tanti li aveva “aperti” per vedere le viscere corrose, gli organi devastati, putrefatti, marci, ormai inutili.
Pezzi di carne divorati dall’ospite maligno, così lo chiamava. E tanti li aveva “richiusi” con la consapevolezza che ormai l’ospite aveva vinto.
Ormai non appartenevano più al mondo, alla vita, a loro stessi. Erano vinti. Erano persi. Era solo questione di tempo.
Quel tempo che troppe volte gli avevano domandato quanto sarebbe stato.
Quanto mi resta?
E lui lo sapeva, ma deontologicamente non poteva, non doveva dirlo. E la risposta era sempre la stessa
…Non lo sappiamo. Due , tre, quattro mesi….Dipende...
No, lui lo sapeva se sarebbero stati due, tre, quattro mesi. Lo conosceva bene il cancro. Aveva lottato contro di lui. Aveva vinto, lo aveva estirpato. Aveva perso e non ce l’aveva fatta. E allora aveva detto due, tre, quattro….. non lo sappiamo.
Lo conosceva bene perché dopo trent’anni di lavoro in ospedale il suo peggior nemico si era svelato a lui in tutta la sua cattiveria, in tutto il suo potere cattivo e devastante. Con tutto il suo olezzo di morte.
Certo, a volte gli aveva mostrato i suoi punti deboli, si era scoperto, permettendogli di vincerlo e gioire della vittoria conquistata con la caparbietà e le sue armi.
A volte aveva perso, le sue armi si erano spuntate e aveva dovuto rassegnarsi lasciandolo con il rimpianto e l’amarezza di chi non accetta la sconfitta.
Ma non aveva mai mollato. Non si era mai sottratto a quella guerra. Era un combattente nato, dotato di forza e desiderio di vittoria.
Conoscere sempre più e sempre meglio il nemico lo stimolava a continuare a non arrendersi mai. Era la sua ragione di vita
Un colpo di pistola in un reparto ospedaliero, nel reparto di oncologia, nel cuore della notte non può non essere udito.
Quando tutto intorno è silenzio, quando l’unico rumore è quello degli zoccoli degli infermieri, o dei campanelli di chiamata di qualche degente, un colpo così tonante, così forte, così cupo, così improvviso non può non essere udito.
Un colpo di pistola che arriva dallo studio del più bravo medico di quel reparto fa sobbalzare, fa paura, fa si che gli sguardi degli addetti al turno di notte si incrocino, si domandino, si chiedano cosa sia stato.
Poi la corsa di un’infermiera verso la porta dello studio. La mano che prima bussa e poi d’istinto la apre.
L’urlo.
Gli occhi increduli che vedono il più bravo medico del reparto riverso sulla scrivania coperta di sangue.
Lo sapeva. Ne era certo.
Gli sarebbe restato un solo mese.
Ma l’ospite maligno sarebbe morto con lui.
E lui aveva vinto per l’ultima volta.