«Dovremmo tornare a casa tutti i giorni
Da lontano, dalle avventure, dai pericoli
E dalle scoperte, con nuove esperienze
E un nuovo carattere.»
Henry David Thoreau
Sono chiuso nella mia cantina buia e umidiccia.
Sono rimasto qui per due lunghi mesi, smettendo di credere che il mondo potesse ancora cercare qualcosa da me, che potesse pretendere, dai miei gesti stanchi, ancora una parola, un gesto, un assenso.
Sono rimasto così, a coprirmi gli occhi, a cercare di non guardare attraverso quella finestra sporca, opaca, che, se avessi voluto, mi avrebbe regalato un po’ di realtà. Invece no, ho smesso di pensare ai tuoi capelli dorati, ho smesso di pensare che tu non eri lì fuori e ho aspettato che ricomparissi. È durata un attimo quell’attesa, è durata il tempo di pensarla e tu sei comparsa davanti a me, bellissima, con quegli orecchini che indossavi sempre, piccoli, bianchi, quasi celesti, delle perle che somigliavano ai tuoi occhi. Avevi un profumo forte, di quelli che non ti ho mai sentito portare. Quando mi avvicinavo a te sentivo l’odore del mare, l’odore della terra appena bagnata da una dolce pioggia di primavera.
Ma ti ho lasciata scomparire e sono rimasto di nuovo solo con me stesso, smettendo di succhiare il midollo della vita, smettendo di assecondarla. Ho scelto di vivere in un modo che sia solo mio. E quindi sono qui, seduto su questa sedia, immobile, a fumare questa lunga sigaretta, ad aspirare forte, arrabbiato. Mi fingo indifferente, ma questa vita fa davvero schifo, mi ha tolto tutto, mi ha circondato di cose, cose inutili, cose di cui non avevo bisogno.
Non cercavo cose, volevo che tu mi fossi accanto sempre, accanto come solo tu sapevi fare, come la schiuma che si infrange contro la roccia, costante e testarda, sempre vera, splendidamente autentica.
Però un giorno hai smesso di essere puntuale e io ho smesso di essere roccia. E così ho avuto paura perché qualsiasi cosa avrebbe potuto travolgermi. Ero nudo davanti a volti ciechi e sordi.
Non mi guardavano, io osservavo, provavo a cercarti, ti cercavo negli occhi e nei sorrisi irrigiditi, quegli sguardi paurosi. Io mi sentivo piccolo, non un gesto, non un cenno mi hai concesso, sei scomparsa lasciandomi in una trepidante, infinita attesa, con lo sguardo perso, con le mani tremanti.
Non ti ho più vista. E io ogni giorno lo passo curvo su questi pezzi di legno che ho promosso a tavolo da studio a scrivere qualcosa che ti possa far tornare, che mi faccia sentire meno invadente il rumore fastidioso di questo vano attendere. Non scrivo più di due parole prima di dare il foglio in pasto al fuoco, che lo divora letteralmente. Io lo sto a guardare. Osservo le parole che diventano fumo, che ritornano lì dove sono nate, in uno spazio illimitato, e forse, forse vengono a cercarti, mentre io ti immagino che entri da quella finestra e mi rimproveri come al solito per averti aspettata tanto. Ti immagino che mi dici che tutto quel fumo ti dava fastidio, che qualche parola dovevo lasciarla pulita, incontaminata ad aspettare insieme a me. E io piego la testa, come mi piaceva fare per darti ragione. Sì, tu hai sempre avuto ragione, hai sempre saputo quale fosse la cosa migliore per me e per te. Le tue piccole mani mi sapevano guidare, modellandomi, in un universo che con te è sempre stato così gentile.
Il mondo invece con me è ostile.
Il giorno in cui sei scomparsa sono andato al mare correndo, ho tolto i vestiti e mi sono precipitato nell’acqua. Avevo il respiro affannoso, sapevo che il mare, il pensiero di te, non sarebbero stati benigni con questo povero corpo magro. Ho nuotato instancabilmente, sentivo il sale sugli occhi che mi bruciavano, le onde che mi spingevano contro la riva, rifiutandomi, rendendomi inaccessibili i segreti del loro (e tuo) costante infrangersi sulla riva. Allora mi sono steso sulla sabbia. Pioveva. Mi sono lasciato accarezzare da quelle gocce sottili, che forse presagivano quel torpore in cui presto mi sarei perso. Ma non me ne accorgevo. La pioggia si confondeva con le lacrime che mi uscivano piano e insieme mi rigavano il volto, scoprendomi quasi, tagliandomi via quello scudo che mi aveva fatto vivere fino ad allora. Non ho desistito. Ti ho aspettata per una giornata, forse per mille anni su quella spiaggia deserta. I tuoi amici, i nostri conoscenti che passavano mi guardavano e cercavano di capire. Nessuno poteva capire, mamma, quant’era grande quel dolore.
Allora sono scappato ancora. E mi sono nascosto. Si era risvegliato l’animale che in me era sempre stato. Selvaggio, irrazionale, incapace di comprendere dove fossi. E si era assopita la mia natura superiore che avrebbe saputo cosa fare di me, del mio essere rimasto solo, disarmato.
Ma il mio animale selvaggio ha deciso per me. E così ho schermito il mio povero corpo ambulante dagli attacchi esterni, l’ho sottratto alla luce del giorno e al bagliore fioco della notte. No, non ho ovattato il dolore, non l’ho reso più dolce, solo ho lasciato che prendesse un’altra forma: la forma dell’attesa di una madre, mia madre, che entrasse dalla porta, dalla finestra o superando i muri e la realtà e la mia fantasia e mi venisse ad abbracciare e mi venisse a dire di spegnere questa sigaretta ormai consumata, di non essere incazzato con il mondo, di uscire e cercare la verità che lei aveva appena intravisto, di non avere paura. Ma tu non sei arrivata. Mi hai guardato forse, ma hai lasciato che aspettassi senza una risposta. E io ho lasciato a questa cantina indegna il ruolo di madre, le ho chiesto che mi proteggesse e mi preparasse alla vita.
E da due mesi mi sembra di chiederle la stessa, straziante, promessa. Che una dolce calma mi avvolga, che mi prenda per mano, quella mano fredda, sempre più pallida e scarna, e mi conduca da te perché io sono stanco di aspettare e vorrei piangere sulla tua spalla come quando, da piccolo, lasciavi che bagnassi i tuoi vestiti perfetti e mi stringevi forte.
Prendo quello che mi resta e comincio la risalita nel mondo dei vivi.
Sto correndo tra le tue braccia, mamma, sto nascendo un’altra volta.