I pazienti amici di LDM che hanno letto il mio racconto “TRENO” capiranno subito che parlo di cose non dette.
Ai primi di luglio del 1950 un treno mi portava in colonia a Pietra Ligure. Era senz’altro un lunedì perché i turni di soggiorno cominciavano solo in quel giorno. Sono (!) un sopravvissuto a un campo di concentramento tedesco grazie alla protezione materna. Avevo trascorso dieci mesi dei miei primi due anni di vita nel reparto rachitici dell’ospedale di Niguarda. Mia madre, per difendersi dall’ostracismo sociale, piagata dalla mancanza di sostegno economico e affettivo, fece un gesto disperato: emigrò in Svizzera per cercare lavoro e mi affidò a un’altra donna che mi accolse serenamente nella sua vita.
Vissi particolarmente attento a ogni variazione nel tono delle parole. Ho ancor oggi una particolare sensibilità che allora mi agitava ogni volta che si parlava di me nei discorsi dei “grandi”.
La domenica prima di partire fui informato con modi che ricordo molto tranquilli di quello che era stato deciso per me. Per rendere importante quella vigilia si andò a mangiare il gelato alla “Maggiolina”. Si chiamava così allora (1950) un quartiere elitario non lontano dalla stazione centrale, dove vivevano i giornalisti. Era famoso anche per l’omonimo locale, con orchestra e cantante, particolarmente raffinato e molto, molto costoso. Nella mia testa suonò un campanello d’allarme. Tutto stride: la giornata era tranquilla e piena di attenzioni ma il silenzio su come sarà la mia vita nei successivi trenta giorni paventa sgradevoli sorprese. Non c’era alcuna possibilità di dire no. Lei mi ha accolto, ha l’autorità riconosciuta per decidere. Me lo dirà poi molte volte nel corso degli anni: “Lo faccio per il tuo bene”. Non ho mai dubitato delle sue intenzioni ma il ricordo della mancanza di spazio per un’aspettativa diversa dalla sua mi fa male ancor oggi. Il gelato non era niente di speciale e l’orchestra non suonò perché il locale era deserto.
Il giorno dopo il treno fece il lungo viaggio. Si arrivò nel tardo pomeriggio e fummo lasciati liberi nel cortile in attesa dell’assegnazione nelle camerate.
Il secondo giorno entrai nell’acqua del mare: esperienza piacevole senza particolari ricordi. Ha rilevanza quel momento del tardo pomeriggio in cui in cortile, mi girai verso il mare. Il sole stava tramontando, la luce era diversa, aveva un significato particolare. Non me lo diceva una voce ma il silenzio dell’anima. D’improvviso, i rumori dei giochi si spensero ed io smisi di pensare. Qualcosa s’impadronì di me. Era così forte che persi il controllo di tutti gli sfinteri. Lacrime, orina e feci erano l’unica realtà che conoscevo. Dov’era la garanzia di aver dignità nel mondo? Dov’erano le braccia che volevano avvolgermi? La luce stava per spegnersi. Dopo cosa c’era? Avevo così bisogno di non cedere alla melanconia che regredii sino a perdermi. Tornai a quell’età della vita in cui si dipende da qualcuno. E’ un essere appena un gradino sotto Dio e conosce tutti i miei veri bisogni. Era però assente e ne pagai le conseguenze.
Per circa venti giorni l’incidente si ripeté regolarmente, sempre all’ora “...che volge al desio e ai naviganti intenerisce il core…” I primi giorni le assistenti si presero cura di me; poi ebbi assistenza da alcuni compagni. Poi il nulla: non avevo nemmeno disprezzo. Nessuno voleva sapere di me. Imparai a supplire rubando materiale utile dai bidoni della spazzatura. Avevo ripercorso lo stesso itinerario già vissuto nei KL della seconda guerra mondiale. Negli ultimi giorni la presa di coscienza che a breve sarei rientrato a casa mi fece riprendere. Probabilmente un vivere così miserevole mi causò l’attacco di appendicite e rischiai di essere ucciso dalla colpevole ignoranza dell’addetta dell’infermeria.
La vera Misericordia, forse disturbata dalla puzza, decise di farmi un regalo e incontrai quella luna che è ancora chiusa nella particolare cassaforte della mia memoria. Quello che è stato per troppo tempo un ricordo ripugnante è oggi un racconto molto difficile.
Del viaggio di ritorno rammento poco o nulla: ero così provato che mi misi in un angolo e dormii. Quando scesi dal treno a Milano, non fui riconosciuto. Ero così stravolto, dolorante e assetato che solo con uno sberleffo proclamai il mio essere arrivato. Rientrammo a casa in taxi e la mattina dopo alle cinque ero sul tavolo operatorio.
Non parlai mai di quello che era successo. La rabbia che avevo in corpo consapevole che qualcun altro decideva per me indifferente ai miei bisogni così diversi dal mio “bene”, si confinò in nuovo e diverso campo di concentramento per permettermi di sopravvivere.
Solo più di cinquant’anni dopo nell’incontrare mia madre che parlando della sua prigionia disse “…non avrei mai pensato che un essere umano potesse puzzare tanto…” riuscii ad abbozzare un sorriso e a dare spazio a una memoria che reclamava di esistere.
Si parla troppo di guerra in questi giorni: qualcuno ne sente già il fetore?
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