La scudisciata, arrivata improvvisamente sulla faccia con una violenza e una cattiveria inaudita, lo stordirono mentre la pelle della guancia si apriva lasciando scorrere un rivolo di sangue. Senza mostrare nessuna compassione o pietà l’aguzzino che lo aveva colpito, perché quello era il suo dovere, lo prese per il colletto della divisa e con un ulteriore calcio in culo lo rispedì all’interno della baracca dove per lo slancio andò a cadere sul pavimento di assi umide e fredde.
Stava alla finestra cercando di non pensare a niente perché qualunque ricordo sarebbe stato doloroso, sfregandosi le braccia con le mani in cerca di un calore che non sarebbe comunque arrivato mai e, dopo una martoriante e sfibrante giornata di lavoro, come lo erano diventate ormai da mesi tutte le giornate da quando era lì e che non prevedevano un minimo di riposo, attraverso i vetri sporchi vide tra la neve, debolmente illuminata dalle luci dei lampioni, qualcosa di grosso come un pugno o una pallina di un colore chiaro, per quanto gli permettessero di vedere gli occhi stanchi privati oltretutto degli occhiali da miope qual era.
Poteva, anzi doveva, essere una patata.
Con molta attenzione e circospezione, sperando interessatamente di essere stato il solo a registrare quell’immagine, perché in quei frangenti si diventa anche e troppo egoisti, guardandosi attorno e vedendo che comunque nessuno dei presenti nella baracca stipata all’inverosimile, stanchi dal lavoro come lui, infreddoliti come lui, distesi sui loro freddi giacigli fatti solo di assi, gli dava retta e non badava assolutamente a lui, aprì con cautela la porta per avvicinarsi a ciò che un attimo prima i suoi occhi avevano visto.
Mise fuori lentamente la testa guardando prima di qua e poi di là. Nessuno.
Con un balzo, per quanto le forze gli permettessero di compiere, arrivò lì dove quell’oggetto, quell’indefinibile cosa giaceva e allungando la mano per raccoglierla e poi stringerla tra le dita quasi fosse una pepita d’oro, si rese conto che veramente, e come aveva sperato, era proprio una patata, fuoriuscita probabilmente da qualche sacco con cui veniva rifornita la cucina per dar da mangiare a lui e quelli che come lui si trovavano là, anche se per mangiare si intendeva solamente e semplicemente evitare loro la morte per fame. Cosa che accadeva ogni giorno tra l’indifferenza ormai acquisita come se la morte fosse una partita a carte in cui inevitabilmente qualcuno perde. E muore, appunto.
Loro che indossavano solo una divisa a righe e zoccoli di legno che affondavano nel fango di cui si impregnavano e col freddo e la neve congelavano i piedi.
Non aveva sentito, forse anche per via del manto nevoso che ricopriva ogni cosa e che attutisce tutto, i passi del sorvegliante che era sbucato da dietro la baracca col suo cane al guinzaglio. Ma aveva sentito, quella sì, la scudisciata che gli aveva fatto cadere di mano la patata che avrebbe potuto mangiare così, cruda, con tutta la buccia e che la guardia aveva raccolto e dato in pasto al cane. Aveva sentito il calcio in culo che lo aveva sbattuto dentro e si ritenne fortunato perché altri, per una cosa del genere, avrebbero sicuramente rimediato una pallottola in fronte. Assurdamente pensò che forse un po’ di cuore in quella persona c’era ancora.
Jgor Podosky giovane militare dell’esercito dell’Armata Rossa non credette ai propri occhi che si rifiutarono persino di piangere di fronte a ciò che stava vedendo e che avrebbe dovuto essere la reazione più umana e comprensibile per chi avesse un’anima. No. Guardò i suoi commilitoni come per avere conferma che ciò che gli occhi gli rimandavano erano immagini che anche loro vedevano guardandosi attorno. Guardò il suo capitano che non si capacitava, anche lui uomo duro e avvezzo ad ogni situazione non pareva pronto ad affrontare visivamente tanto orrore. Quello che vedevano era vero, era tutto vero. Aprendo quei cancelli si rese solo conto di quanto la barbarie umana, la pazzia, il fanatismo, la violenza, l’odio avessero potuto generare.
Scese da cavallo e come d’istinto si diresse verso quello che sembrava uno straccio a righe in mezzo a tanti altri stracci a righe, che però si muoveva perché dentro c’era un uomo. O quello che restava di esso. Gli si accucciò accanto sollevandogli il capo, prese la borraccia nell’intento di far bere quello che prima era stato un uomo o tale gli sembrava, e lo straccio ebbe appena la forza di atteggiare le labbra a quello che avrebbe dovuto esse un sorriso di ringraziamento verso chi per la prima volta dopo tanto tempo provava compassione per lui.
Era il ventisette gennaio del millenovecentoquarantacinque
Eliah Weiss, il ladro di patate, non seppe mai chi fosse quel giovane né che la guerra era finita perchè morì così, tra le braccia del militare dell’Armata Rossa senza neppure aver potuto muovere un passo verso la libertà oltre i cancelli di Auschwitz.
Quella libertà che forse era buona come una patata cruda e con la buccia.
Non dimentichiamo mai.