Faceva un gran freddo. Quell’avanzo di tuta di lana grezza serviva ben poco contro il rigore dell’inverno. Le mani e i piedi che sporgevano fuori dalle estremità logore della divisa erano come tumefatti. Le unghie tendevano al viola e i geloni, sulle nocchie nodose, erano un terreno irrigato da rigagnoli di sangue raggrumato. Tutto il suo giovane corpo era indolenzito. Perfino i capelli, sporchi e maleodoranti. Ma la cosa che lo rendeva tremendamente diverso dal bambino che era stato erano gli occhi. Adesso non ridevano più. Erano perennemente tristi. Così tristi da sembrare assenti. Rassegnati a soffrire. Rassegnati a non credere più in niente.
Aveva la febbre da un paio di giorni. O forse erano settimane. Aveva perso il conto. L’ultimo pasto, se così si poteva definire, lo aveva assaporato tre giorni prima. Una brodaglia dal colore indefinibile, servita in una ciotola metallica col bordo semiarrugginito. Tra i grumi della poltiglia aveva trovato pure un piccolo scarafaggio marrone. Gli aveva fatto una gran pena. Poveretto, che fine ignobile. Morto dentro un simile schifo. Lo aveva raccolto amorevolmente con il cucchiaio e lo aveva deposto in un angolo della stanza. Poi era tornato al suo pranzo. Era successo tre giorni addietro. Forse, da un momento all’altro, sarebbero arrivati ulteriori vettovagliamenti, scarafaggi compresi.
Gli scarafaggi erano i suoi migliori amici. Si divertiva un mondo con loro. Una volta ci aveva pure chiacchierato. I loro percorsi irregolari e le loro rapide inversioni di marcia lo affascinavano.
Si guardò gli avambracci ossuti e scarni. La pelle, incartapecorita dalla sporcizia e dal freddo, sembrava quella di un vecchio barbone. Nessuno, vedendola, avrebbe potuto dire che era la pelle di un bambino di tredici anni. Lui se li sentiva tutti quegli anni. Soprattutto gli ultimi tre. Trecentosessantacinque per tre. Millenovantacinque giorni. Ventiseimiladuecentottanta ore a domandarsi il perché e poi a cercare di non pensare, a pensare ad altro. Aveva smesso di ridere. Un pesante macigno si era abbattuto con tutto il suo peso sulla sua infanzia. Sgretolandola. Il padre. La madre. La sorella. Il fratellino. I nonni paterni. La nonna materna. Tutto andato. Tutto finito. Adesso era solo. Aveva tutta la giornata per pensarci. Dove saranno andati?
Una sirena lo fece destare dal felice delirio. Un urlo. Tante urla. Uno schiamazzo. Gli uomini in divisa urlavano, abbaiavano le loro parole d’odio. Man mano che si avvicinavano, i battiti del suo piccolo cuore aumentavano. Se li sentiva nel collo. Dentro la testa. Gli uomini colpivano con i loro manganelli di legno le porte di metallo. Un uomo con la divisa nera tuonò: “Veloce!”. Colpì ripetutamente la parete con proprio randello e diede un calcio al mucchietto d’ossa che giacevano sotto la coperta. Il bambino si alzò. Gli girava la testa e avvertiva un forte senso di nausea. Per poco non vomitò sugli stivali dell’uomo.
Una volta fuori si trovò incolonnato in una fila indiana composta esclusivamente da bambini delle sua stessa età. Mese più mese meno. Tutti stralunati. Piccoli cadaveri ambulanti grigi e spenti. Un’allegra brigata. Trenta in tutto. Alle due estremità della fila e ai due lati di essa, quattro uomini con dei mitra in mano, indicavano la strada.
Aria. L’aria della notte. Era fredda e pungente. Ma com’era buona. Frizzante. Uno strano odore. Avvertì uno strano odore. Simile a quello delle focacce che gli preparava sua madre, ma più intenso e dolciastro. Più si avvicinavano al capannone, posto al centro dell’enorme cortile, e più l’odore diventava sgradevole. Dietro l’edificio a base cubica, una imperiosa nuvola di fumo si alzava sopra la linea d’orizzonte. Dalla nuvola scendeva una specie di neve. Una neve quasi impalpabile. La sfiorò appena. Era cenere. Cenere che cadeva dal cielo. Ovunque. Per terra. Sui caseggiati. Sui lampioni. Sulle catapecchie. Sui selciati. Se la ritrovò presto anche addosso. I suoi capelli ne erano pregni. Provò a toccarla, ma al solo tentativo quella strana neve si scioglieva. Si dissolveva nello spazio di pochi istanti.
Quando arrivarono al cospetto del capannone, anch’esso completamente ricoperto dalla cenere, capì che non avrebbe mai più rivisto la propria stanza.
Entrò, con tutti gli altri suoi compagni di viaggio, dentro quello che si rivelò essere, almeno a prima vista, un’enorme stanzone adibito alle pulizie corporali. Dal tetto pendevano venti, trenta, cento bocchettoni simili a quelli delle docce. Un bambino che gli stava dietro esclamò, tutto intirizzito: “Ci vogliono far lavare con questo freddo?!?”
Lui ricacciò i suoi pensieri da dove erano venuti, preferì tacere. I quattro uomini armati, intimarono ai bambini di spogliarsi e di gettare i propri panni sporchi dentro l’inceneritore che si trovava alla loro destra. Al termine della doccia avrebbero avuti abiti nuovi e un pasto caldo. Quindi risero sguaiatamente e uscirono uno dopo l’altro, lasciandoli nel buio più completo. Alcuni si misero a piangere, altri, i più avveduti, si inginocchiarono tenendosi per mano. Si vennero a formare così tanti gruppetti. Di colpo arrivò la luce, accolta con qualche sospiro di sollievo. Il bambino più silenzioso di tutti era proprio lui. Si raggomitolò, nudo come sua madre l’aveva fatto, in un cantuccio e chiuse gli occhi. Immaginò di essere uno scarafaggio. Sottile, piccolo, veloce. Immaginò di potersi muovere liberamente. Senza vincoli o divieti. Immaginò che quel gas che scendeva dai bocchettoni delle docce fosse solo il fumo del forno a legna che aveva suo nonno. Immaginò di essere così minuto da poter sgattaiolare al di sotto delle porte blindate e di fuggire lontano da quell’orrore. Da quei pianti. Da quelle grida isteriche soffocate da conati di vomito. Da quei rigurgiti di sangue. Da quei rantoli. Da quella fine così ingiusta. Così crudele.
Le paratie sul tetto si spalancarono. Il gas residuo evaporò. Le porte si aprirono ed entrò un camioncino, scortato da alcuni uomini. Erano gli addetti ai lavori. La bassa manovalanza. Raccolsero le salme dei bambini e le gettarono dentro il cassone ribaltabile del camioncino. Quando ebbero finito, quando l’ultimo corpo venne gettato sopra gli altri, il veicolo partì. Attraversò tutto il capannone. Si fermò al cospetto del forno ardente perennemente acceso. Il cassone si sollevò, lasciando scivolare nelle fiamme il proprio triste carico.
Da sotto un masso, un piccolo scarafaggio fece capolino. Si guardò attorno, tutto intimorito e quando capì di essere al sicuro, uscì allo scoperto. Compì un paio di piroette e poi s’infilò in un buco che attraversava il muro di cinta. Corse più che poteva, dentro mille cunicoli e anfratti, ma alla fine trovò quella dannata via d’uscita.
Era libero. Finalmente.