Il sole tardava senza risparmiare afa e umidità che facevano scendere una pioggia calda ma leggera, a tratti buona. Gli ombrelli si schiusero in fretta e davano l'idea del solleone in spiaggia, qualcuno si spogliava delle giacche e le rimetteva quando il vento si alzava forte al capolinea e i fischi del motore e la ruggine sulle rotaie imprecavano, i rumori diventavano più assordanti quanto vicini, poi il capotreno scendeva, fischiava qualcosa, al suo segnale le porte si spalancavano e la gente scendeva fuori. Quelli più agitati accendevano una sigaretta, la mettevano alla bocca con le dita e fumavano con frenesia, poi ci soffiavano su e la cenere cadeva. Un leggero strato di polvere faceva starnutire, dicevano che si trattava di allergie di mezze stagioni, quelle di Maggio, quelle delle primavere che non si sa mai se piove o fa freddo, ma è primavera e devi esser pronto per questo tipo di cose.
I nomadi scendevano in fretta dalle carrozze , attraversavano le rotaie senza fare il giro lungo, portavano con sé valige e una grossa quantità di buste di plastica, avevano l'aria stanca e i berretti sul capo sportivi di alcune griffe famose senza originalità. Non fumavano mai, avevano solo lo sguardo basso verso il futuro, spesso si trattava della strada e loro lo sapevano che si trattava della strada e per questo erano tristi ma pronti.
Avevo incrociato più o meno un milione di occhi da quando ero lì, c'erano alcuni che mi erano piaciuti altri meno. Non ricordo esattamente quanto aspettai, ho il vizio di anticiparmi per questo tipo di cose e spesso dimentico di bere, o magiare o prendere pillole nel caso dovessi. Non mi dimenticai di fumare, fumavo spesso e ne avevo appena accesa una quando arrivò col suono impazzito che stordí i timpani.
I fanali si spensero e poi il fischio e poi il capotreno e la gente scesero. Andai a timbrare il biglietto e dovetti aspettare una folla impaziente, come se fossero presi da un ansia che non potessero controllare, come se il mondo si fosse fermato lì e non avessero dovuto far altro che salire su quel maledetto treno e sperare, sperare poi in chissà cosa.
Pensai alle parole di una ragazza che conobbi alcuni anni prima, una certa M. carina e malinconica, tingeva i capelli di rosso e ubriaca mi disse che le piacevano i treni perché c'e n'era sempre uno che partiva. Era chiaro, ma non si può mai sapere da che parte andare. C'è sempre un canaio di strade, di rotaie, di auto, mezzi e piedi che si incrociano e camminano su per la strada, consumando la breccia e le suole e le gomme e le rotaie e si guardano negli occhi e nei fanali, coi loro suoni e coi loro rumori e poi d'un tratto si urtano, si scansano si toccano si sfiorano.
La voce alla radio disse qualcosa sulla prossima stazione e sulle sanzioni per chi non avesse il biglietto, fissai il vuoto delle immagini che sparivano e si susseguivano in sequenze. All'alba non avevo preso la colazione, fumai in fretta e indossai i vestiti del giorno prima. Dormii poco e male come spesso succede, aprii la ventiquattro ore e mi resi conto di aver dimenticato la rivista dove fu pubblicato il mio articolo. Quelli del Reuve Noir me l'avevano fatta arrivare per corrispondenza ma non avevo mai avuto il tempo di vederla nè di leggere le recensioni.
Quando fui sopra indossai gli occhiali da sole scuri, portai i capelli bagnati dietro con una mano, tolsi la giacca e rimasi in camicia, poi ebbi caldo lo stesso e liberai qualche bottone dalle asole, notai la t shirt bianca piena zeppa di sudore e la barba, che avevo lasciato incolta da due settimane, irritata. Erano un paio di mesi che non prendevo pillole, quel tizio, il dottor Melvins, diceva che le cure invasive erano ricche, riempivano le tasche alle aziende farmaceutiche e ai dottori ed era per questo che faceva il dottore. L'idea mi aveva sempre dato la nausea.
Se ne stava lì H. Melvins, coi suoi occhiali e la sua testa pelata a dirti cosa dovevi prendere e per quanto tempo dovevi prenderlo, senza empatia, non l'avrebbe avuta nemmeno per sua madre. Non avevo bisogno della sua empatia, anche se credo possa essere la miglior dote in un dottore, ma comunque egli era freddo e viscido e lo erano le sue mani quando prescriveva, insieme con la penna, i fogli, le scarpe blu da circolo nautico, mi chiedevo se non fosse a capo di un azienda farmaceutica.
Da piccolo, ricordo, una volta accompagnai mia nonna all'ospedale e un tale col camice bianco mi sorrise, teneva uno di quei dolci idioti che qualcuno aveva preparato la Domenica prima tra le mani, mangiava, sorrideva, e tenne su quel sorriso da stronzo per tutto il tempo e le sue sporche briciole cadevano mentre aspettavo in quella stanza che diventava sempre più piccola e piena di briciole, avrebbero potuto sommergermi.
Di fronte, sul lato del corridoio sedeva un uomo, si chiamava Vincent. La sua faccia era pendente e scura, i capelli lunghi sembrarono potersi asciugare al vento mentre agitava le mani e le gambe in un ticchettio irrefrenabile, come se non vedesse l'ora di scendere o chissà cosa, mi chiese una gomma da masticare e attaccò dicendo qualcosa sul tempo e sul culo di una tipa che era di spalle; finsi di non vedere. Mi chiese dove fossi diretto e dove fermasse il treno, diedi una risposta rapida su dove fermasse, sembrò fregargliene poco, poi iniziò a toccarsi la gola e a fare rumore col naso come se affogasse.