Dicembre,1970
Monica aveva sei anni.
Come me.
Ci vedevamo quasi tutti i pomeriggi, dopo la scuola.
Francamente non ricordo come l'avessi conosciuta. Forse i miei genitori conoscevano i suoi.
Era una bambina con i capelli corti, biondi. Con un viso pallido che esprimeva una fatica quotidiana del vivere. Spesso era assente da scuola. La sua voce flebile pronunciava, però, parole che esprimevano pensieri puri e ricchi di immagini. Andavo a casa sua e giocavamo nella sua camera. Lei aveva tanti giochi. Quello che mi piaceva di più era un microfono amplificato da una piccola cassa. Quando parlava nel microfono la sua voce si faceva profonda, intensa. Sembrava arrivare da chissà dove.
Ovviamente mi ero innamorato di lei. Come ci si può innamorare a sei anni. A casa disegnavo molto. Sopratutto noi due. C'era lei, nel disegno. Io mi raffiguravo come un'ombra che la seguiva. Sempre. Non l'abbandonavo mai. Aspettavo di cogliere un attimo particolare in cui avrebbe socchiuso la bocca e avrebbe parlato. Monica diceva sempre cose belle. Le parole crescevano dentro di lei, non si facevano la guerra.
Monica cominciò a stare male. La tosse peggiorava sempre più e anche la febbre. Passò molto tempo a casa. Non ci potemmo vedere per molto tempo. Il primo giorno in cui riuscii ad andarla a trovare la vidi nel letto, il viso ancora più pallido. In una mano aveva il microfono.
“Guarda alla finestra”, mi chiese. “Stanno ancora giocando?”
Guardai. C'era un enorme campo con l'erba alta e dei bambini stavano giocando a calcio. L'erba intralciava la loro corsa. Facevano una fatica terribile a passarsi il pallone.
“Si. Stanno ancora giocando.”
“A volte mi affaccio e con il microfono faccio, per loro, la cronaca della partita. Dopo un po' smetto. Sono troppo stanca.”
“Non dovresti prendere freddo.”
“È che mi annoio.”
“Lo so.”
“Mi faresti un favore? Faresti tu la descrizione della partita, oggi, per me? Io proprio non ce la faccio.”
“Io?”
“Dai che ce la fai. Ci sai fare con le parole.”
“Ci provo.”
Aprii la finestra e cominciai a parlare al microfono. E parlai... parlai... parlai...
“Come è andata?”, mi chiese Monica.
“Mi sembra sia andata bene.”
“Hai visto?”
La vidi stanca e desiderosa di dormire. La salutai con un bacio sulla guancia.
“Ci vediamo presto.”
“Contaci.”
Non la vidi più. Le sue condizioni peggiorarono. I suoi genitori si trasferirono lontano per permetterle di avere delle cure adeguate. Non seppi più nulla. L'ultima immagine che ricordo di lei furono quegli occhi profondi che mi guardavano mentre uscivo dalla stanza.
Dicembre, 2019
Ho 55 anni. Sto camminando per la mia città alla ricerca dell'ultimo regalo di Natale. Sento una voce che mi chiama. Mi giro.
Quel viso.
Quegli occhi che mi entrano dentro.
E quella voce.
Ora non ha più bisogno di un microfono. È una voce bellissima.
“Ci sai fare ancora con le parole?”, mi chiede sorridendo.
Guardo questa donna bellissima. Rivedo quella bambina che è cresciuta dentro di lei e che è ancora lì, sulle sue labbra, nei suoi occhi, nella sua voce.
Lei mi guarda. E anche io.
Ogni occhiata che mi ruba aggiunge qualcosa nel mio cuore.
In quel momento comprendo cosa siano le PAROLE.
Esse sono come le ombre.
Ci stanno attaccate.
Non ci abbandonano.
Sono pazienti.
Aspettano che noi cogliamo l'attimo.
Ognuna di loro ha un tempo e uno spazio destinato.
Le parole hanno bisogno di un prato appena tagliato.
Hanno bisogno di bambini che possano corrervi sopra, liberi e veloci, lanciandosi un pallone.
Solo così, per loro, arriverà il momento in cui noi le pronunceremo...
...per chi le saprà ascoltare.