Al termine di un giorno di sole, nell’aria immobile dell’autunno, un ristretto gruppo di persone era seduto in un cerchio di eleganti sedie da giardino, al centro del parco.
Un grande acero elevava i rami al cielo limpido, senza traccia di velatura; dai rami, di tanto in tanto, volteggiavano solenni larghe foglie, tinte interminabili di gradazioni accese, dal carminio al vermiglio, screziate di porpora. Le foglie rosse indugiavano contro lo schermo bianco del tronco, disegnando arabeschi di vivo dolore. Al centro della scena, l’ultima luce dorata contornava le dita sottili di Eric, sospese sul rigido alternarsi cromatico dei tasti di uno Steinway; aleggiava l’ansia di una fervida attesa. Il giovane abbassò le dita; aghi di tristezza cristallina si sollevavano dalla cassa del pianoforte e scintillavano nell’aria immobile, resi visibili agli occhi dell’anima dai raggi di quell’ora, sacra e violenta, che precede il crepuscolo, come i granelli di pulviscolo in una stanza socchiusa.
Di quei pochi che frequentavano Eric, vale a dire i suoi familiari e un numero assai eseguo di amici, nessuno sospettava che il musicista possedesse la straordinaria abilità di spostarsi nel tempo. Questo fatto era dovuto soprattutto alla peculiare maniera in cui tale dono si manifestava, cioè in modo del tutto impercettibile per chiunque. Lui non ne parlava mai, con nessuno.
Quando ciò avvenne, gli orecchi più sensibili del piccolo uditorio avvertirono appena una variazione, indistinta e sfuggente, nella fluida successione di suoni; un minuscolo scatto, forse lo slittamento brusco di una falange, o un impercettibile ritardo, l’indugiare di un polpastrello, il tremolio inopportuno di un vibrato troppo acceso… qualcosa, inafferrabile ma presente, era passato fra quelle note eleganti, disturbandole e facendole vibrare come i cristalli di una vecchia vetrina; qualcosa, troppo impalpabile ed etereo per essere definito un errore; un granello di sabbia sulla superficie livida di un intero oceano, luccicante alla luce soffusa di un cielo plumbeo, che affiora per un solo istante e subito scompare nell’abisso per altri mille anni.
Mille anni, precisamente, era stato assente Eric in quel frangente.
Era avvenuto fra la fine del primo movimento e l’inizio del successivo, nello spazio fra un complesso passaggio di semicrome, eseguito dalla mano destra, e l’avvio di un elaborato arpeggio, di due ottave più basso, della sinistra. Per l’appunto in quell’attacco di controcanto baritonale, che pure era avvenuto in perfetta sincronia con il tempo dell’esecuzione, il pubblico percepì la sottile discontinuità.
In seguito, quando fu diffusa la registrazione del concerto e la consacrazione di Eric fu totale, quegli eletti, che erano stati presenti allo stato di grazia, furono concordi nel ritenere quello il momento in cui la scintilla del genio era divampata nell’incendio di una grande anima. Nessuno di loro seppe spiegare di più di questo: era avvenuto da un istante all’altro, nello spazio inafferrabile di quello che un acuto critico definì “un quanto di musica”.
Mille anni dopo, Eric, tornando, aveva trovato la mano sinistra sospesa sopra l’assoluta purezza diafana dell’avorio, e l’indice della destra che schiacciava con voluttà la superficie sfuggente dell’ebano di un bemolle; mentre il movimento delle sue dita proseguiva come l’aveva programmato dieci vite prima, Eric sapeva di incarnare le anime di coloro che l’avevano preceduto; suo fu il largo genio di Thomas Mann, la visione meccanica e possente di Taub.
La musica fluiva dallo strumento come se nulla fosse accaduto, ma il mutamento era totale: le linee melodiche delle armonie scorrevano, parallele e indifferenti, come sempre era avvenuto; ma ugualmente convergevano, nell’orizzonte impossibile di una geometria musicale non più euclidea. Nel punto in cui esse, fatalmente, si unirono, indistinguibili e distinte, Eric percepì il varco, il passaggio finale, che avrebbe condotto il suo movimento nel regno delle Cose Eterne.
Così il giovane musicista distillò una singola perla, un quanto di tempo assoluto, dove erano racchiusi i mille anni che aveva passato al pianoforte, trasformando la massa grezza del suo talento informe nella vivida esplosione di un’unica, accecante vampa di fiamma. E subito prima di morire lasciò al mondo l’unica esecuzione perfetta del Secondo Movimento della Sonata per pianoforte n. 32, in Do minore, di Ludwig van Beethoven.