L'uomo vestito da clown sospinse la pesante porta di metallo, fece qualche passo silenzioso nel corridoio in penombra e gridò: - Buon compleanno!
Le luci basse dell'illuminazione notturna disegnavano aloni soffusi alla base delle pareti; oltre la vetrata grande, proprio difronte al salottino dei visitatori, un'alba incerta dondolava sopra l'orizzonte tappezzato di nuvole grigie.
- Di nuovo con noi? – lo apostrofò una voce stanca.
Il pagliaccio era venuto avanti di qualche altro passo e aveva estratto dalla tasca del suo costume fiorito una trombetta dorata, con il pomello rosso. Sorrise all'infermiera, premette a fondo il pomello e gridò di nuovo: - Buon compleanno!
L'eco della tromba si esaurì in un pigolio lamentoso; da qualche parte, echeggiò un lamento, seguito da un vociare sommesso. Il piccolo gruppo di sanitari in servizio si radunò all'ingresso del reparto, circondando il vecchio clown.
- Siamo in ospedale, lo sa! Non può fare tutto questo rumore.
- Ma chi l'ha mandato? È un volontario? – domandò un infermiere nuovo affacciandosi alla porta di una delle stanze. I colleghi lo guardarono senza rispondere.
L'uomo aveva un sorriso sornione e ottuso disegnato sopra un viso stanco, ricoperto di vernice bianchissima. Raccolse la domanda e aprì le labbra con lentezza, come se il trucco le tenesse incollate. Parlava con fatica.
- Oh no, sono venuto da solo. Per il compleanno.
- Ma il compleanno di chi?
Il pagliaccio si bloccò, interdetto. Sembrò riflettere e chiese quanti posti letto ci fossero in quel reparto.
- Cinquantadue. - riferì meccanicamente l'infermiere nuovo.
- E sono tutti occupati?
- No, abbiamo tre letti liberi. – Si rivolse agli altri. - Ma cosa vuole? Ma chi è?
Il clown sollevò una mano, ricoperta da un enorme guanto blu, dalle dita scucite.
- Mi lasci riflettere un istante - aggiunse.
Assunse un'aria assorta, chiuse gli occhi e iniziò a parlottare fra sé, conteggiando qualcosa con le dita. Alla fine fissò di nuovo i sanitari e disse:
- Siete sicuri che nessuno oggi compia gli anni?
- Sicuri. - rispose una ragazza, mora e minuta, stretta in una divisa sottile.
- Ho aggiornato io le anagrafiche dei pazienti, me ne sarei accorta.
- Oh. Capisco. Mi dispiace, in questo caso. Avevo il 12,58% di probabilità, capite? Dovevo provare.
- Ma di cosa parla? – il nuovo insisteva, sempre più sbalordito. – Ma è uno della direzione ospedaliera?
- Guardi - continuava quello - la probabilità che proprio oggi, in questo reparto, uno dei pazienti compia gli anni, è un calcolo semplice: basta sottrarre da uno gli eventi a sfavore per ogni posto letto, dopo averli moltiplicati fra loro tante volte quanti sono i letti occupati.
Un silenzio eloquente era calato sul gruppo di infermieri e anche il clown, dopo quella spiegazione, rimase muto, con le spalle curve e lo sguardo spento, come un giocattolo a molla senza carica. Il sorriso finto, su quel viso afflosciato, somigliava ad un ghigno triste.
- Su, andiamo, professore. È quasi ora della colazione. – la più anziana delle infermiere prese la mano del vecchio vestito da pagliaccio, che la seguì come piccolo randagio; camminava chino, con il braccio disteso, lo sguardo che ciondolava fra il pavimento e le piccole luci di cortesia.
– Le andrebbe una tazza di caffelatte?
La voce della donna si perse nel tramestio sommesso della corsia. Un televisore un po’ troppo alte diffondeva la sigla del primo TG.
- Professore? Ma si può sapere chi è quello?
- Alfrè, lascia perdere. Dai, c’è da fare gli stick.
- Ma perché, è un segreto?
- Daje, t’ho detto che devi lassà sta.
Le voci dei due uomini si allontanavano. La risposta dell’infermiere nuovo fu coperta dal trillo di un campanello.
- Povero Professor Tresconi. – bofonchiò la ragazza minuta.
- Ha perso tutto. La cattedra di matematica, la ragione... dopo il lutto non si è mai ripreso.
- Quanti anni sono passati? Sette? No, dieci.
Il sole si era deciso a mandare un raggio di luce verso la vetrata e adesso, nel pavimento blu di resina lucida erano disegnate le ombre storte degli infissi. Presto sarebbero arrivati gli altri colleghi: quella notte finiva, il prossimo giorno apparteneva a loro.
La collega si allontanò in silenzio. La ragazza minuta era rimasta sola, ma non se ne era accorta.
- Sì, dieci anni, il mese prossimo. Lei ne avrebbe compiuti trenta.