Quando suo padre le disse dove sarebbe andata a far la serva, Betta sentì un brivido correrle lungo la schiena. Il palazzo dei conti XXX in Montagnana era tristemente famoso, perché chi vi entrava pulzella ne usciva spulzellata, senza eccezioni. Per fortuna avrebbe dovuto prender servizio solo il giorno seguente, perciò aveva tempo per avvertire il moroso della disgrazia che stava per capitarle.
“Padre, devo andare a lavare i panni nel Frassine. Avete altro da comandarmi?”
“No, figliola, và pure”. L'uomo era triste, ma sapeva fin troppo bene che un contadino non può ignorare gli ordini del suo padrone.
Invece di recarsi al fiume, Betta prese la via dei campi. Dopo una mezz'ora di cammino arrivò nel paesino di Rovenega, dove il suo giovane innamorato stava togliendo le erbacce da un campo di cipolle. “Cosa fai qui a quest'ora? Lo sai che è sconveniente incontrarci da soli prima di sposarci.”
“Lo so, lo so. Eccome, se lo so. Ma il padre mi manda serva del conte XXX e tu sai cosa succede il quel palazzo. Ma piuttosto di cedere a quel vecchio porco mi butto dalla finestra più alta. Son venuta a portarti la novella, ché se mi dicono morta tu sai il perché.”
“Dai, su Betta. Ci sarà pur un modo per scamparla. Magari scampiamo proprio, io e te, in qualche posto distante. Si potrebbe andar verso Verona...”
Ma lei gli rispose tra i singhiozzi: “No che non si può. Sennò il conte si vendica su mio padre. Che fine faranno i miei fratelli? E mia madre? Non se ne fa di nulla. Ci devo andare, ma l'onore non lo perderò. Addio mio caro Tonin.”
Ciò detto si incamminò sulla strada del ritorno, senza dargli il tempo di replicare. Lui tentò comunque di correrle dietro, ma lei lo rimproverò: “Non farmi star male anche tu. Lo sai che ti voglio bene e che sarai sempre nel mio cuore.”
E pensò, tra sé e sé: 'anche da morta'.
Il mattino dopo si presentò di buon'ora all'entrata della servitù sul retro dello sfarzoso palazzo che sorgeva quasi al centro di Montagnana. Bussò una volta al batacchio del portone e rimase in attesa. Qualche minuto dopo, l'uscio venne aperto da un giovane garzone il quale, dopo qualche spiegazione, la guidò in un labirinto di stanze e corridoi, fino alla grande cucina della residenza. Il capocuoco stava urlando ordini a destra e a manca.
“C'è qui la figlia di Renier Moraro. È venuta a prendere servizio.”
Il cuoco la guardò per un istante, ma non aveva tempo per i convenevoli.
“Falle sgranare i fagioli, ma che sia lesta. Mi servono per il desinare.”
La ragazza fu subito accompagnata in uno sperduto angolo della cucina, umido e semibuio. Su un tavolaccio era stata posata una grossa cesta stracolma di legumi. Betta cui si mise di buona lena e finì in tempo, ma non ebbe tempo per riposarsi, perché finita quella ebbe molte altre incombenze da sbrigare. Verso sera, qualcuno le allungò una scodella di zuppa e un tozzo di pane e finalmente poté riposare un po'.
Mentre mangiava, sperò con tutta sé stessa di poter sfuggire alle attenzioni moleste del conte, ma l'arrivò di un valletto dal piano nobile la mise in allarme. Infatti, costui cercò il cuoco e gli chiese: “Dov'è quella nuova? Il signor conte la vuol vedere subito.”
Nel sentire quelle parole, Betta ebbe la tentazione di nascondersi dietro la madia, ma capì che sarebbe stato inutile.
Pochi minuti dopo fu al cospetto del signor Conte. Mentre l'omaccione la squadrava, per un tempo che le parve infinito, tenne gli occhi bassi e tormentò con le mani uno straccio di cucina che si era portata dietro nella concitazione.
“Sicché sei figlia del mio vignaiolo più bravo. Lo sai vero cosa ti aspetta? Lo sai che io sono il vero marito di tutte le donne del contado? Non c'è bisogno che tu ti metta a tremare. Non ho fretta. Ti darò tutto il tempo di abituarti all'idea.”
“Con rispetto parlando, non succederà mai. Perché prima mi ammazzo”, rispose lei.
Il conte fu sorpreso e divertito da cotanto coraggio, perciò decise di darle corda: “Ah si? Capisco. Ma per restare a palazzo senza darmi il tuo fiore dovresti almeno saper fare qualcosa di importante. Non solo aiutare in cucina o cuocer la polenta.”
Lei tirò un sospiro di sollievo: “Signorsì signor conte. So leggere, scrivere e far di conto."
“Orpo!”, ribattè lui, “e dove hai imparato?”
“Dal prete di San Marco, bontà sua, che mi ha insegnato poco alla volta dopo la messa.”
“Canaglia quel prete. Ti avrà mica anco spulzellata?"
“Non faccia sacrilegio, Illustrissimo. Sono intatta come appena nata. Don Serafin è un uomo buono e pio.”, stava per aggiungere 'non come Lei, che è un porco risaputo', ma si morse la lingua e rimase in silenzio.
"Beh, beh. Una donna che sa far di conto è un fenomeno da queste parti e sarebbe perfetta in una carovana di saltimbanchi, ma mi dici cosa potresti fare per me? Ho già i miei contabili.”
Lei esitò un istante, come se stesse cercando le parole giuste per dire qualcosa di importante: “Che il signor conte ha i suoi contabili lo so, magari saranno bravi, ma cosa capita se sono anco disonesti?” “Cosa vorresti insinuare?”
“Che per esempio il castaldo che viene a prendere l'uva di mio padre segna la metà del consegnato. L'ho visto con questi occhi scrivere cinque bigonci al posto di dieci.”
Il conte si grattò in testa, mentre rifletteva su quelle parole. Se il furfante aveva agito così spavaldamente, alla luce del sole, era perché non sospettava che la donna sapesse leggere sul registro. Dunque la ragazza che aveva di fronte poteva rendergli un grande servigio smascherando allo stesso modo altri disonesti. Per il momento accantonò l'idea di spulzellare la giovane.
“E saresti capace anche di capire se ci sono imbrogli nei conti che mi portano?”
“Di sicuro, Eccellenza, così potreste mandar in prigione chi vi sta rubando.”
Passò un mese. Ogni giorno, Betta scopriva qualche truffa nascosta in mezzo ai numeri: cifre cancellate e riscritte o persino rendiconti sbagliati per pura negligenza. I ladri e gli incapaci vennero tosto cacciati, mentre le finanze del casato aumentavano via via che il tempo passava. Nessuno sapeva che il merito spettava tutto a Betta, che si guardava bene dal rivelare il suo segreto. E altrettanto fece il conte, per tema che i disonesti, messi sull'avviso, trovassero altri modi per fare la cresta sui raccolti. Sicché, all'insaputa di tutti, Betta divenne in pochi anni il consigliere più fidato del nobiluomo che, dal canto suo, rinunciò definitivamente a pretendere il suo improprio “jus primae noctis”.
Ma gli costò fatica, perché Betta era davvero molto bella. In un certo senso, finì per innamorarsene di un amore soltanto platonico, ma non lo ammise mai con nessuno. Men che meno con sé stesso. Anzi, quando lei sposò Tonin le fornì una ricca dote, come quella di una figlia. Lei del resto lo ricambiò con un affetto fedele, servendolo fin sul letto di morte.
E questo è quanto.