Se la immaginava ancora e ancora e ancora e ancora, come l’attesa di un cavaliere al ballo della scuola, come l’attesa del sole per i panni stesi ad asciugare.
Le ultime ore erano passate così, a ricordare com’era andata quella storia.
Nessuno voleva bene a Ferruccio, perché era cattivo. Ma non quella cattiveria che si rimprovera ai bambini quando si è bambini. Lui, Ferruccio, era proprio una merda.
Probabilmente qualche trauma da bambino o dei genitori insensibili. Resta il fatto che se poteva darti un dispiacere, lo faceva. Odiava il mondo.
Se ti salutava al mattino aveva da chiedere qualcosa: duemila lire, un caffè, un passaggio a scuola.
Ferruccio lo stronzo, lo canzonavano i ragazzi con quattro peli sulle guance, per far ridere le ragazze che se la tiravano con le loro gonne colorate e i nastrini per la testa.
E lui, a testa bassa, appendeva il suo giaccone all’attaccapanni dell’armadietto, quello con le parolacce e il disegno di un culo.
Nell’armadietto viveva, da solo, un grembiule lungo e grigio, con la targhetta.
Lui lo indossava e ogni tanto imprecava, quando saltava un bottone.
La scopa, i prodotti per pulire i cessi, gli sguardi indifferenti dei professori, quelli canzonatori dei ragazzi e delle ragazze.
Lui li odiava tutti, specialmente i ragazzi. Per le ragazze aveva altri pensieri.
Il Catanzaro vincente sul Milan non lo aveva beccato neanche il Padreterno!
E il culo, quello che stava sul suo armadietto, quella domenica sera davanti alla Domenica Sportiva, davanti alla schedina, davanti a quello schifo di mondo che lo aveva ignorato fino ad allora, beh quel culo aveva finalmente fatto il suo dovere!
Aveva fatto tredici al totocalcio!
Quasi un miliardo!
Probabilmente fu in quel momento che si accorse di avere un cuore, perché lo sentì battere a una tale velocità, con un tale impeto che ebbe il terrore di accasciarsi in compagnia di un infarto.
Prese un sorso di birra fredda dal bicchiere che accompagnava il rito del gol domenicale e si impose di calmarsi.
La prima cosa che gli venne in mente fu il culo di una ragazzina di quarta C.
Poi quella mezza sega di Edoardo e il preside e tutti quelli che lo avevano preso a calci nei denti fino ad allora. Bastardi.
Riaffiorarono ataviche lotte di rivalsa, la violenza degli schiavi liberati, la freddezza emotiva dei vessati. Si vide superiore al mondo, protetto da quel muro di soldi che gli avrebbe permesso qualsiasi vendetta.
Il mattino dopo arrivò a scuola come al solito. Come al solito prese il suo grembiule grigio e fu bersaglio dello scherno dei ragazzi.
“Guarda, lo stronzo sorride”, “Ma no, è una paresi!”, e giù risate e le ragazze con la mano davanti alla bocca con il rossetto rosso, ignari, tutti, del colpo di fortuna di Ferruccio.
Durante la seconda ora fu la professoressa di ginnastica (le sue scarpe di tela, soprattutto) la prima ad accorgersi che tutti i cessi erano intasati e strabordanti di liquami che uscivano e si sparpagliavano per i corridoi, si infilavano sotto le porte delle aule e colavano dai muri e sulle scale.
Ferruccio, che si era riappropriato del sorriso, era davanti alla porta di un notaio, con la sua schedina in tasca, dentro una busta, come i pensionati con la pensione. Aveva letto che era bene affidarsi a gente del mestiere per non commettere l’errore di far scoprire a tutti che era diventato milionario.
Il notaio lo fece accomodare su una poltrona di pelle, si fece consegnare la schedina e disse che avrebbe fatto da intermediario tra il CONI, che doveva pagare la vincita, e il fortunato tredicista.
“Si faccia rivedere tra una settimana e mi raccomando, acqua in bocca!”
Il notaio fece pure un sorriso e diede una pacca sulla spalla a Ferruccio.
Fu una settimana di progetti di viaggi, di vestiti e di donne. Di classe stavolta, mica come quelle baldracche slabbrate del viale.
“Lei è sicuro di aver giocato la schedina?”
Certo che ne era sicuro, che domanda del cazzo! C’era la contromarca sulla schedina, l’aveva appiccicata leccando la colla con la lingua la tabaccaia del Bar Sandrone.
“Il CONI mi ha comunicato che la giocata non risulta negli archivi.”
E allora? Che guardino meglio!
Qualcosa nella pancia si muoveva con una strana violenza.
“Le consiglio di affidarsi ad un avvocato. La questione potrebbe essere complicata.”
Con la schedina tra le dita e le madonne che partivano dalla bocca come gli aeroplani da una portaerei in missione, raggiunse il portone di tal avvocato Guido Sestoni, cugino di qualche grado ma con cui aveva litigato per cinquemila lire qualche tempo addietro.
“Ah, guarda chi c’è! Ferruccio lo stronzo! Vattene, mi fai schifo!”, e chiuse la porta.
Cioè provò a chiudere la porta perché Ferruccio mise un piede dentro ed allungò la busta con la schedina. Guido prese la busta e guardò il foglietto bianco e verde.
Si sa che l’animo umano è incline al perdono. Le persone si lasciano alle spalle qualsiasi incomprensione se ci sono dei motivi validi.
Quel pezzo di carta era evidentemente un motivo abbastanza convincente per tal avvocato Guido Sestoni, cugino di qualche grado del novello milionario.
“Non ti preoccupare caro cugino, ci penserò io a far cacare i soldi al CONI!”
Quella cosa del cacare fece riaffiorare il buonumore sulla faccia di Ferruccio che ripensò alla marachella (si è sempre indulgenti con sé stessi) fatta alla scuola.
Una serie di sorrisi e strette di mano e di pacche sulle spalle sancirono quello che divenne un sodalizio inaspettatamente lungo.
Il CONI infatti non ne voleva sapere di pagare e prima i giorni e poi i mesi e infine gli anni passarono. Di Ferruccio lo stronzo ormai non si ricordava più nessuno. Solo l’avvocato.
“Qualcosa finalmente si sta muovendo! Stanno per arrivare i soldi!”
Dopo 38 anni un Guido Sestoni canuto e con dei denti nuovi provenienti direttamente da uno studio dentistico serbo, informava suo cugino, stremato da una vita di espedienti, di “una svolta definitiva”.
Sprofondato in una poltrona di pelle, a Ferruccio si riaccese una fiammella nelle orbite. E un pulsare nuovo nel petto, quasi doloroso.
E adesso era lì, da non so quanto tempo, a fantasticare di cosa avrebbe fatto con quei soldi.
Rivide Edoardo e il culo della ragazzina di quarta C.
Pensò ai viaggi, alle auto, alle donne di classe.
Un sorriso sbocciò sulle sue labbra, o così sembrò a lui.
Non è dato sapere se si può sorridere, da morti.