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Luigi è “memoria”. E’ di un anno più giovane di me ma ricorda particolari ed atmosfere di una Milano scomparsa come vaticinato dall’apocalisse “…e le montagne e le acque si ritireranno e il loro posto non sarà più…”. Chiedo scusa per l’analogia che può apparire blasfema ma quando penso al “gamba de legn” il treno a vapore che usciva dalla sua rimessa di corso Vercelli 36 tutti i giorni alle 12,36 per collegare Milano con il suo confine occidentale, Magenta, rivivo un’atmosfera perduta. Ricordo il sapore di una Milano in cui proletari cenavano alle 19,00 mentre la buona borghesia di via Boccaccio apparecchiava la tavola per le 20. La differenza di orario certificava la classe sociale. Lo stesso valeva per la messa della domenica: l’upper class andava a messa alle 12,30 in Santa Maria Segreta (già alla fine degli anni ’50 le pellicce si sprecavano in inverno) mentre sempre quei proletari che mangiavano alle 19 andavano a messa in San Pietro in Sala alle 10.30. Mi son lasciato prendere la mano. Luigi era a 20 anni più autonomo di me: era un garzone di stamperia e, con il furgone, doveva distribuire prodotti un po’ dappertutto (anche in quello che oggi si chiama hinterland – allora si diceva in provincia). Doveva attraversare la città ad ore impossibili ma ne viveva l’obbligo con gioia. Racconta spesso dell’osteria in fondo a via Ripamonti, dove si mangiava bene e, a suo dire si beveva ancora meglio, per poche centinaia di lire. Aveva una libertà che a me, impiegato di concetto di 2° categoria con autonomia funzionale ed obbligo non formalizzato di cravatta, era assolutamente negata. Gestiva le consegne in funzione delle sue esigenze che andavano dall’incontrare alla fermata dell’autobus la fidanzata di turno, al bloccarla, nell’intervallo di mezzogiorno nel retro dell’androne della “fabbrichetta” dove lavorava per godere con lei di pochi minuti d’intenso ma irripetibile piacere. Qualche anno dopo (seconda metà anni ’60) ho scoperto anch’io che qualche mia collega, d’estate, non indossava indumenti ritenuti “indispensabili” chiamate mutande. Adesso abbiamo quasi settanta anni e questi ricordi che ad un lettore distaccato possono sembrare la manifestazione patologica di un’arteriosclerosi avanzata, sono invece prova di vita. Sono entrati in scena i particolari: percezioni, sensazioni, dettagli che si ritenevano cassati da anni di dure battaglie professionali o sindacali o da imprevedibili eventi a sfondo familiare. Credevo di aver scordato nomi, indirizzi, date di nascita, il colore degli occhi o dei capelli. D’improvviso ecco Anna, nata l’8 febbraio in una provincia dell’estremo sud. Aveva studiato dalle Orsoline e dietro gli scaffali della biblioteca aveva imparato che si può avere un sesso rumoroso e parlato. Ecco Caterina nata nel giugno 1955 bella e serena come il mese che le ha dato la luce. Ecco Lina di cui adesso posso valutare le sfumature di voce o il significato di gesti per me allora irrilevanti. Ecco Paolo che ho invidiato per i suoi capelli neri, gli occhi azzurri ed il suo successo con le ragazze che riteneva dovuto. Ecco Franco con il quale studiavo economia politica e con il quale avevo progettato di aprire un’agenzia di viaggi non appena avremmo avuto il denaro necessario e che stimavamo in pochi milioni di lire. Non ho più visto Paolo e nemmeno Franco. Da un giorno all’altro il legame che ci univa si è evaporato. Come possa sparire qualcosa che si riteneva sacro e inviolabile è un mistero. In certi atti della nostra vita si realizza a un certo punto una sublimazione che mi lascia una domanda: dov’è il senso di tutto ciò? Luigi, rompicoglioni, non potevi stare zitto? Quando hai parlato dell’osteria in fondo a via Ripamonti hai aperto…che cosa? Quello che aspettava di ritornare alla luce o il messaggio criptato che adesso posso solo affogare nella sinfonia n° 2 di Brahms?
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Utente Anonimo
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