Per me la domenica non esiste. È una dimensione spazio–temporale in cui provi a fare delle cose senza successo, perché nemici subdoli e infingardi, travestiti da divano e tv, ti fagocitano, tenendoti in ostaggio fino al giorno dopo. Inutile ribellarsi, bisogna solo aspettare che sia lunedì, momento in cui rimpiangerai le cose che non hai fatto la domenica appena trascorsa rimandandole a quella successiva, per ripetere tutto da capo.
Oggi non è domenica, ma è come se lo fosse, siamo in quarantena, ogni giorno è uguale a un altro. Dopo una nottata più o meno serena mi alzo tutta scombussolata: ho mal di testa, mal di pancia e mi sembra pure di aver perso gusto e olfatto. Oh Signore, ho il virus!
Mi trascino come un’anima senza corpo all’interno della mia abitazione, facendo la spola tra la camera da letto e la cucina, indecisa sul da farsi. Chi devo chiamare? Dove devo andare?
Accendo il PC e mi metto a cercare “sintomi Covid19”. Non l’avessi mai fatto; non ho solo il Covid, ho anche la Sars, la Spagnola, il diabete insipido e la celiachia. Panico, ma decido di riacquistare la lucidità.
Con uno scatto isterico chiudo il PC e provo a essere ragionevole: prima di fasciarmi la testa devo appurare se ho la febbre.
E chi se lo ricorda più dov’è il termometro. Io la temperatura non la misuro mai, di solito capisco di non stare bene dall’espressione di mia madre che, con tono quasi disgustato, mi dice che non mi si può guardare e, considerato che la mamma è l’unica persona che ti vede bella anche se sei brutta, non posso che fidarmi di lei. Tuttavia, mia madre non può venire a trovarmi, è vietato: cosa dovrebbe scrivere sull’autocertificazione, “misuratrice oculare di temperatura?”. Non si può fare.
Provo a contare i battiti del polso sinistro con l’indice e il pollice della mano destra; non sento niente, bene, sono morta. Alla fine il termometro spunta fuori: è perso in fondo al cassetto dei calzini, non so per quale motivo si trovi lì, cionondimeno me lo ficco sotto l’ascella e aspetto con pazienza il bip di avvenuta misurazione.
I tre minuti di attesa sembrano un’eternità, grondo di sudore, e se davvero ho la febbre? Non ce l’ho, 36 gradi e tre. Tiro un sospiro di sollievo, almeno ho escluso il Covid, la Sars e la Spagnola, ma restano il diabete insipido e la celiachia. Decido di pensarci dopo, intanto mi preparo un caffè senza zucchero.
Apro la dispensa e un brivido freddo mi attraversa la schiena: del caffè neanche l’ombra, finito, niente, deceduto. Tutta la vita mi passa davanti. Per una frazione di secondo valuto la possibilità di farne a meno per una giornata intera, ma è un’esperienza che non ho mai fatto, non so come reagirebbe il mio corpo. Troppo rischioso. L’unica soluzione è andare al super sotto casa, ma questo implica la necessità di togliermi il pigiama e indossare qualcosa di decente, senza contare il fatto che devo portarmi appresso l’autocertificazione. Cosa scrivo? Il caffè può essere considerato bene di prima necessità? Considerato che senza caffeina rischio di perdere il senno sì, ma vallo a spiegare alla polizia. Vuol dire che comprerò anche una confezione d’acqua e un panino, così non mi possono dire niente.
Mi torna in mente Rosario, uno dei miei alunni più indisciplinati che conosce bene gli effetti che produce la mancanza di caffeina sulla mia psiche, a tal punto che, quando si rompe la macchinetta, è lui stesso a chiamare il centro assistenza. Ha il numero memorizzato nella rubrica e, anche se non potrebbe farlo, trova sempre il modo di avviare la salvifica telefonata, con la connivenza dei collaboratori scolastici che, come lui, sanno cosa voglia dire prof. senza caffè. Tuttavia, un giorno il centro assistenza tardò ad arrivare. Ci fu una mobilizzazione generale, dai colleghi ai collaboratori che non sapevano come venirne a capo, finchè Rosario, sgattaiolato dalla classe, dopo aver dato uno sguardo fugace alla macchinetta disse che doveva esserci un tubo “istruito”. Magicamente la macchinetta si mise a funzionare senza che nessuno facesse niente. Il tubo era così istruito che si aggiustò da solo.
Tornata da questo piccolo viaggio nei ricordi mi infilo la prima cosa che mi passa tra le mani, ma compio l’errore di non guardare fuori dalla finestra: fa caldissimo, la gente sfoggia maniche corte e pantaloncini mentre io, con il piumino e lo sciarpone, sembro l’omino Michelin in trasferta. La signora del super appena entro mi lancia uno sguardo di disappunto, non tanto per l’abbigliamento inadeguato, ma perché, oltre allla mascherina, indosso gli occhiali da sole, anche se all’interno del locale le luci sono spente. Potrei spiegarle che lo faccio per lei, per proteggerla, per evitarle lo shock. Insomma, che non tolgo gli occhiali perché ho due belle borse griffate sotto gli occhi, tuttavia desisto, non ho l’umore adatto per fare conversazione.
La signora continua a guardarmi con sospetto. Che l’acqua e il panino sono alibi per poter giustificare il caffè ce l’ho scritto in faccia, tuttavia non me ne curo più di tanto e trotterello da un reparto all’altro della bottega alla ricerca dell’oro nero. Nel frattempo il commesso, notando la mia confusione, da un metro di distanza mi urla gentilmente se ho bisogno di aiuto. Misantropia portami via, pur di non avere contatti umani grugnisco di no e un grazie, tanto per non apparire maleducata. Finalmente riesco nel mio intento e mi dirigo alla cassa con acqua, panino e caffè. La signora non ha il resto di venti euro, mi chiede monetine. Ci scambiamo sguardi diffidenti, respirando in modo affannoso dalle nostre mascherine stanche ma colorate.
Uscita dal negozio mi chiedo come andrà il resto della giornata, ma con l’oro nero tra le mie braccia il mondo mi sembra già un luogo più sicuro. Mai più senza caffè.