In paese l’autunno era arrivato da poco, i passanti iniziavano a indossare cappelli e sciarpe e gli automobilisti a chiudere i finestrini.
Quando arrivava l’autunno, da quelle parti, il vento gelido del nord non risparmiava proprio niente e nessuno. Soffiava forte, urlando la sua forza quasi fosse un barbaro alla conquista di un territorio.
“Fiiiiiiiiii” e “Fiiiiiiiii” suonava nel cielo come un aereo a bassa quota.
E così la gente si imbacuccava così tanto, con solo gli occhi a segnalare la propria vita.
Sembravano quasi tutti dei banditi in giro per le strade, coperti da cappelli e sciarpe dai colori più svariati. Dalle loro bocche uscivano dei fumi che si innalzavano nell’aria che, a guardarli da lontano, apparivano come ciminiere di fabbriche a pieno ritmo.
Era l’autunno la causa di tutto ciò.
Dall’altra parte della città i parchi si apprestavano a cambiar d’abito con una calma quasi da far invidia.
Gli alberi a dir il vero erano stati sempre dei gran pazientoni, si limitavano a far le cose senza mai avere alcuna premura. Non avevano mai avuto davvero alcuna fretta e da sempre si chiedevano come mai gli uomini al contrario di essi correvano così tanto, da appena svegli alla notte e viceversa.
Se lo erano chiesto da tempo gli alberi e, da tempo, non avevano trovato mai nessuna risposta.
Nel loro silenzio avevano fin da sempre cercato di far comprendere agli uomini il segreto della loro longevità e della felicità.
“Basta poco per essere felici, un cellulare spento e delle nuvole che pascolano”, bisbigliava sempre il più vecchio dei platani ogni qualvolta gli passava qualcuno sotto con all’orecchio quell’infernale scatola nera.
Gli uomini però non lo avevano mai capito, o più che altro mai sentito. Non comprendevano il linguaggio della natura e non avevano mai fatto alcunché per cercare di comprenderlo. Erano troppo indaffarati per fermarsi qualche minuto ad osservare il vento che soffiava, o qualche istante a udire i vagiti dei germogli.
E così correvano a più non posso a destra e a manca, di lì e di là, senza mai girarsi o fermarsi.
“Oh mio Dioooo!!!”, esclamò inaspettatamente Cicca vedendosi lanciare in aria con un
colpo di dito medio!
Già sapeva come le sarebbe andata a finire, ma non si aspettava certo quel gran colpo all’improvviso…
Gli uomini erano fatti così, ti coccolano e ti accarezzano quando servi per poi buttarti come un sacco di spazzatura quando non sei più utile.
E così, in questa enorme e interminabile gara podistica umana, la povera Cicca, una sigaretta di famiglia buona, si vide lanciare in aria ancora scoppiettante come una palla di cannone di altri tempi.
Fece un giro, due giri, tre giri e… “ooohhhhh”, finì sul ciglio di un marciapiede ruzzolando.
“Ahia!”, disse la sventurata sigaretta.
Aveva fatto un triplice salto mortale come mai aveva immaginato.
Di colpo era passata dal vedere vetrine festose e piene di luci passeggiando con eleganza,
alle sponde di una sporca e buia pozzanghera dall'aspetto per giunta tenebroso.
Doveva scansare anche le auto impazzite e le suole dei passanti per cercare di sopravvivere ancora un po'.
Era triste la povera Cicca. Non pensava ad una fine così, era consapevole che la vita non fosse eterna, ma mai aveva pensato di terminarla a quel brutto modo.
Si era affezionata a quell’uomo lì.
In quel breve tempo che si erano conosciuti l’aveva coccolata, abbracciata e accarezzata.
E lei, la povera Cicca, aveva creduto a quelle lusinghe.
Poi come un fulmine a ciel sereno, quando oramai serviva a ben poco, quel colpo da biliardo senza preavviso.
Rotolò per mettersi in salvo, ma anche la pioggia arrivò.
Quel poco di fuoco che le serviva a riscaldarsi stava quasi per spegnersi. Da lì a poco la miserabile sigaretta avrebbe chiuso per sempre gli occhi.
Li avrebbe chiusi volentieri se fosse stata tra le braccia di qualcuno che le avesse voluto un
po’ di bene.
Ma nulla, solo una pozzanghera al suo fianco e una pioggia battente come un picchio.
Il grande platano si impietosì tanto a quel vedere.
E così, da gran saggio quale sempre era stato, sussurrò alle orecchie del vento qualcosa.
Quest’ultimo, sempre pronto e fedele servitore di quel vecchio e imponente albero, si
alzò in piedi e soffiò e soffiò ancora. Sempre più forte fino a quando una grande foglia dai colori dorati si staccò dal grande platano.
E, planando nell’aria come una piuma d’oca, leggiadra ed elegante, come fosse quasi una fata dal grande manto color oro in soccorso dei più deboli e dei più fragili, si adagiò accanto a Cicca e con fare materno l’accarezzò e l’abbracciò.
La avvolse per intero coprendola dalla pioggia e la scaldo'.
Cicca aprì nuovamente i suoi occhi oramai rassegnati e quasi spenti e, incredula, sorrise.
Sorrise di gioia alla morte.
Stava morendo, vero, ma tra le braccia di qualcuno che le volesse veramente bene.
La sua amica foglia.
Bernardo Panzeca