Nella magnifica piazza di una magnifica città sorgevano dei palazzi sontuosi e di una bellezza inenarrabile. Al fianco di essi splendeva nelle sue forme architettoniche abbellita da stupefacenti capitelli storici la Chiesa madre.
Essi, capolavori di rara bellezza, fin dagli albori erano stati i guardiani della piazza. Giorno e notte vigilavano guardando ogni angolo attraverso i loro buffi occhiali.
Uno di quest’ultimi da sempre era il capitello più ammirato da tutti.
Flotte di turisti arrivavano da ogni parte del mondo per ammirare e fotografare la sua bellezza e la sua imponenza. Di questo Pit, così si chiamava il felice capitello, andava fiero ed era orgoglioso.
Pit si nutriva di scatti e di complimenti quotidiani. “È una grande opera d’arte” – “è qualcosa di straordinario” – “è incredibilmente bello!”, suonavano a gran voce tutti coloro che andavano in città per visitarlo.
Pit si pavoneggiava sempre più giorno dopo giorno, era stato da sempre molto vanitoso e ogni mattina chiedeva al suo amico piccione di ripulirlo e lucidarlo a dovere. Tutto ciò entro le prime ore dell’alba: Pit doveva essere perfetto già alle prime luci del sole.
Gli anni passavano, ma Pit non perdeva lustro e giovinezza.
Era felice e non chiedeva nient’altro alla vita. Un giorno però, di colpo, vide che i flash delle macchine fotografiche cominciarono a diminuire e non udì più neanche i tanti complimenti a cui era abituato da sempre. Anzi, a dire il vero sentiva bisbigliare nell’aria: “è uno schifo” – “che vergogna” – “è davvero indecoroso!”. E giorno dopo giorno percepiva nella zona un fetore sempre più forte e intenso.
L’allegro capitello, stupito e impaurito, si girò intorno, guardò a destra e a sinistra, ma nulla. Guardò anche in alto, guardò in basso e proprio sotto di esso scoprì una montagna di spazzatura che addirittura fuoriusciva dai cassonetti e aveva invaso l’intera piazza. Quei pochi turisti che oramai venivano in città, giravano al largo e non fotografavano più lui, bensì la “vergognosa” vicenda.
Pit non poté fare altro che scoppiare in lacrime e stringersi forte all’amico piccione. La tanta spazzatura attirava milioni di insetti e Pit, che da sempre era stato allergico, starnutiva dalla mattina alla sera. Soffriva molto e improvvisamente da capitello felice e gioioso si tramutò in capitello triste e infelice.
I suoi genitori avevano fatto tanto per metterlo al mondo, ma tutto d’un tratto, era come non fosse mai esistito.
I turisti non vennero più, le botteghe chiusero una dopo l’altra e molti cittadini se ne andarono. Poco alla volta la città si spopolò sempre più e nel corso degli anni non rimase più nessuno.
Pit si ritrovò da solo con al fianco lo starnuto e l’incuria più totale. Anche il suo amico piccione aveva preferito andare via – i topi oramai si erano insediati e restare ancora era diventato rischioso.
La città divenne negli anni una città fantasma, Pit era diventato vecchio, pieno di crepe e con la sola voglia di riabbracciare la propria famiglia.
Padre e madre erano stati due capitelli ionici di assoluta bellezza, scomparsi in seguito a una disgrazia. Durante un restauro un bulldozer distratto li colpì radendoli completamente al suolo.
Pit pregò in silenzio tanto, aveva tanta voglia di rivederli, finché un bel dì un forte boato tuonò in città.
Tutto quanto tremò. Palazzi, chiese e monumenti barcollarono come fossero abeti in balia del vento. I topi, tutti quanti, di gran fretta fuggirono via e Pit, per niente timoroso, trovandosi una grande e immensa ombra al suo cospetto chiese: “chi sei?”.
“Sono il terremoto”, rispose la grande ombra, “mi mandano i tuoi genitori e sono venuto a prenderti”.
Pit non credette ai propri occhi e, dopo tanti anni di silenzio e tristezza, fu finalmente felice di crollare di gioia.
Bernardo Panzeca