Nel disastrato regno di*** erano state introdotte gabelle di ogni tipo, alcune alquanto insolite, per sostenere le inesauribili esigenze della famelica corte del re.
La bizzarra fantasia del ciambellano del re varcò le frontiere del regno il giorno in cui, il solerte burocrate, introdusse nientemeno che una “tassa sui bottoni”. La singolare trovata, molto apprezzata dal re e dalla sua corte, costrinse i poveri sudditi a privarsi dei bottoni e andarono a zonzo ricoperti di stracci logori e, finanche, spenzolanti.
Pian piano però, l’effetto dirompente di quella strana tassa - ma non delle numerose altre - si attenuò, poiché tutti avevano fatto a meno dei bottoni: anche le patte dei pantaloni ne erano state private e costituivano un vero oltraggio al comune pudore.
Lo sfrontato ciambellano, sentendosi sconfitto, introdusse anche la “tassa sulle scarpe” e i sudditi, a questo punto, non potendo fare a meno delle già malandate calzature, non seppero più che pesci prendere. Certo, il popolo rumoreggiò, ma dovette abbozzare agli scagnozzi che il re aveva sguinzagliato per tutte le strade del regno.
I sudditi erano stanchi e ormai ridotti alla fame da quei sacrifici enormi, quando un giorno giunse nel regno un noto cantastorie, balzellando sul suo vecchio carro colmo di carabattole e mascheramenti di ogni tipo. Era un meraviglioso frottolante che inventava storie capaci di suscitare il riso e il pianto con una forte azione mimica e, in quella maniera, si guadagnava da vivere.
Giunse sulla grande piazza gremita in un giorno di mercato e cominciò, con le sue fantasmagoriche giullarate e smorfiaggini, ad attirare una grande folla. Dopo lo spettacolo iniziò un concitato dibattito tra i villani più agitati. Urlando, si lagnavano e proponevano di ribellarsi al re. L’unione fa la forza, diceva uno. Prendiamo i forconi, gridavano altri. Prendiamo i bastoni, le falci, le fruste, insorgevano tutti. In effetti, si sentivano impotenti al confronto con gli armieri del re che, per la verità, erano armati di tutto punto e ben nutriti come porcelli.
Insomma, aleggiava lo scoramento in piazza e il vecchio fabulatore, incantatore di folle e campione dello sghignazzo, fino a lì silenzioso, disse: - Cittadini, voi possedete la più potente arma che si sia mai vista, contro il potere che vi ha messo in mutande, il riso. Sì, amici miei, il riso. Siete in tanti. Bene, dovete farvi beffe del re e della sua corte ridendogli in faccia per tutto il tempo che ci vuole, fino a quando non si sentirà irriso a tal punto da fargli cambiare aria. -
- Che vuoi dire? -, domandò una voce confusa tra la folla.
- Beh -, disse il giullare, - quello di far ridere non è un mestiere facile, lo so ben io, ma sono qui e vi aiuterò. Forza amici, tutti al castello, e seppelliamolo di risate. -
Sembrava una delle sue classiche smargiassate, ma in verità si rivelò una stupefacente giullarata di cui si parlò per molti anni, dentro e fuori quel disgraziato regno. Il vecchio buffone organizzò la folla intorno alla reggia e al suo via, i più sfacciati cominciarono a esibirsi in una serie di lazzi e capriole e tanti altri li imitarono, la mancanza di bottoni alle patte causò una serie infinita e singolare di fatti oltraggiosi, e il riso crebbe, crebbe… finché si arrivò allo sganascio, allo scompiscio collettivo che durò giorni e notti, sotto gli occhi amareggiati del re e della sua melanconica corte.
La gente in tela di braghe cominciò a sentirsi liberata da ogni influsso maligno e prese gusto a farsi beffe del potere a tal punto che non la smetteva più e per giorni e giorni durò lo sghignazzo di quei meschini in mutande, fino a quando il grande portone del castello non si aprì e lasciò passare la sontuosa carrozza del re che, con il suo fedele codazzo, abbandonò il regno e non vi fece mai più ritorno.