Le montagne verdi e gelide, ombrose e assolate, un ruscello quasi fiume trasparente e ghiacciato e i prati che roridi di rugiada nascondevano “i ricordini” delle mucche al pascolo, gli anfratti che regalavano miti e silenziose chiocciole per il nostro pranzo. Questi sono i ricordi, le nostalgie che feriscono il mio cuore, lo strazio del passato perduto.
Partivamo dal paesello nei giorni d’estate bollente e luminosa, in metà di mille per andare sulle montagne distanti almeno 3 ore di cammino a piedi.
Era un attraversare boschi, fiumiciattoli, baratri e immensi campi di grano e di papaveri. Il nonno a dorso del suo cavallo muto e serio ci precedeva, noi bimbi in mezzo e dietro di noi i famigli scalzi. Il colore della campagna che si tramutava in montagna era quasi iridescente, i covoni erano di un giallo accecante e l’acqua così trasparente che specchiandosi ci vedevi la tua stessa anima. Si arrivava in cima ad un pianoro, l’ora che volgeva al tramonto faceva scaturire in me un dolore nell’anima e mi costringeva a fermarmi e piangere a dirotto, sentivo l’immensità intorno a me e sapevo che mi avrebbe sovrastata. Il sole che scompariva dietro il cucuzzolo offriva il meglio di sé e annunciava che eravamo vicini alla meta.
La casa che ci accoglieva era in parte in muratura e in parte in legno, si adagiava mollemente sul lato posteriore a un muro di terra e le finestrelle che vi si affacciavano le usavamo come porte.
Lo spiazzo davanti era in terra battuta e sulla facciata si aprivano due porte: una conduceva in una grande sala con un soppalco e l’altra dava in un locale angusto e fuligginoso adibito a cucina.
Ma che profumi e sapori ne venivano a noi! I letti erano fatti di foglie di granoturco, i piatti e le posate di legno e il pranzo era spesso una zuppa di ricotta appena fatta e pane secco. Si mangiava tutti all’aperto sotto un maestoso ciliegio e mille divieti ci proibivano di scendere al fiume.
Ero sicuramente la più spericolata e quando, su un terrazzo con le balaustre alte pochi centimetri, i famigli mettevano ad asciugarsi le nocciole, io impavida e incosciente con il mio cagnolino e un setaccio vi saltavo dentro. Un giorno portai con me anche una coperta, mi ci avvolsi e tutto si compì, rotolai lungo il dirupo sottostante e con me il cagnolino, ma ahimè lui finì nel fiume e un buon angelo invece mi fermò ai piedi di un albero. Piansi per il mio cucciolo.
Si alzava all’improvviso verso l’alba un grido lacerante e perentorio: "Uccani! Uccani!"
I famigli correvano verso le stie dei polli su verso la cima, brandendo bastoni per scacciare la volpe e la faina che attentavano alle galline.
C’era un angolo nascosto dove la bisnonna aveva piantato una piccola vigna che produceva l’uva più bella, più saporita e più grossa che mai abbia visto. L’uva zibibbo. Guai a noi se osavamo toccarne un acino, era destinata ai notabili del paese ma ovviamente le bocche fameliche di noi pesti si guardavano bene dall’obbedire e così i poveri grappoli si ritrovavano belli panciuti davanti e svuotati dietro.
Quante ne abbiamo presi di sculaccioni!
Correvamo al fiume e ci scapicollavamo su un grande masso che era ben piazzato proprio lì in mezzo, e giù a rotoloni con le conseguenti sbucciature e graffi vari e poi si finiva nell’acqua gelida.
Al mattino si facevano le squadre per andare a raccogliere "le lumache” scalzi e impudichi, neri come il carbone, vocianti come erinni ci addentravamo nei pascoli umidi e profumati ma anche colmi di lasciti animaleschi e nei cestini ricoperti di foglie di fico riversavamo quantità industriali di quella prelibatezza.
La bisnonna cucinava quel bottino con perizia da masterchef, ma vi assicuro più genuino, tutti con i nostri piatti di legno e un legnetto per stanare la prelibatezza dal suo guscio ci sedevamo sul prato colorando i musetti di rosso pomodoro.
Il momento più atteso era quando sfornavano il pane. A ognuno di noi veniva dato una "minnitta”, un piccolo panino ripieno di nocciole. Si andava allora per gustare il pane croccante e caldo a raccogliere più verdure che si poteva e si faceva a gara chi raggruppava più ingredienti.
Cipolla, carote, sedano, basilico, menta, pomodoro, cetriolo, porcellana (portulaca), peperoni, granoturco sedano, melanzane olive e poi olio, sublime olio di olive del nonno, che lo teneva ben nascosto e ce ne dava un cucchiaio a testa.
Si faceva la rincorsa per andare al pollaio non appena si sentiva un coccodè petulante e perentorio, come a dire: “eccovi serviti ho appena scodellato un ovetto per il vostro appetito!”
E una volta due maschietti del gruppo di notte nel pollaio hanno bucato tutte le uova con uno spillo e ne hanno succhiato il contenuto sino a starne male. La bisnonna all’alba quando ha visto le facce terree e le urla di mal di pancia dei due bricconcelli ha capito e li ha puniti rispedendoli al paesello.
Facevamo lunghe passeggiate fra i rovi e le lucertole e io mi sentivo straniera fra gruppi di sorelle che bisbigliavano segreti e sciocchezze, ma io ne ero tagliata fuori e allora la mia vendetta ha colpito come una falce affilata una delle cugine che mi escludeva. Le avevo prestato un paio di scarpe e nell’impeto del furore vendicativo gliele ho tolte e ho lasciato che arrancasse per tornare alla casetta scalza e piangente.
C’era un altro posto della mia gioventù, era la torre saracena a picco sul mare, dicevano che durante l’occupazione araba il mare fosse ben lontano dalla torre e davanti un rigoglioso aranceto facesse da cornice al suo splendore. Nei suoi sotterranei si sono trovati resti umani, si dice di prigionieri lì custoditi, e di gallerie così profonde e lunghe che attraversavano montagne, che sbucavano su quella montagna dei miei ricordi dove, in cima, alla fine della galleria, si ergeva un grande crocefisso in ferro e da lì si dipartivano cunicoli e gallerie che portavano a un altro mare e che durante la seconda guerra sono stati utilizzati di soldati alleati.
Si scendeva attraverso una scaletta scolpita nel fianco della roccia sino al mare e fra un bagno e l’altro si raccoglievano le patelle e quando il catino era pieno si gridava ai castellani di buttare giù la pasta. Durante l’inverno la balaustra di ferro veniva abbassata perché la torre doveva apparire come era, naturalmente morta e solenne da secoli.
Non più ormai casetta in montagna e acqua pura, ci hanno fatto un agriturismo, hanno canalizzato l’acqua che abbeverava il paesello. Non più mucche, ma qualche sparuta pecora e non più bambini ma anime vecchie e solitarie che arrancano sin lassù per racimolare briciole di vita. Non più torre sul mare, l’erosione l’ha mangiata tutta e i castellani sono su una nuvola a rimirare quello che è rimasto.
Ho vissuto della bellezza e della crudezza di quei luoghi e so che non potrò dare ai miei nipoti queste meraviglie. La colpa è solo nostra e meritiamo il castigo che la natura ci dà, i ricordi e i rimpianti.