Una mattina di quel tardo settembre rientrai precipitosamente dalla solita passeggiata con Geremia, il mio cane.
Ero uscito dal primo mattino in un silenzio tranquillo che invadeva tutta la campagna, sino all’orizzonte. Il cielo era attraversato da batuffoli di nuvole bianche, che non riuscivano a stare insieme riunite e si rincorrevano allegre.
Una poiana, con le ali tese, imbalsamate, volteggiava sulla macchia. A ridosso della scogliera pascolava un gregge, sotto gli occhi vigili di un cane. Si udiva il respiro delle capre mentre due becchi cozzavano, per gioco. Geremia aveva rincorso a perdifiato, insieme all’altro cane, le pietre che il pastore lanciava lontano.
Mi ero trattenuto a osservare una fila di formiche che procedevano, più veloci del solito, lungo un sottile sentiero di polvere zigzagante tra le erbe secche. Pensieri oziosi occupavano la mia mente.
Poco dopo arrivò il vento. Folate improvvise e calde sollevarono stretti mulinelli di polvere, paglia e foglie secche.
Da ponente comparvero nuvole nere attraversate da saette di fuoco. Poi i tuoni rimbombarono vicini. La polvere frullava, alta; grossi goccioli pizzicottarono la terra polverosa, tiepidi come brodo.
Con un fischio breve e acuto, feci accorrere Geremia e mi avviai veloce verso casa.
Il vecchio motorino della Fidalma (la mia governante) era addossato al muro e la donna stava allegramente trafficando in cucina. Canticchiava un motivo a bocca chiusa e si udivano i rumori delle stoviglie e dei passi che andavano su e giù.
I tuoni si fecero più lontani e il temporale girò da un’altra parte. Restarono grossi nuvoli, pallidi, ma l’aria, divenuta più fresca, era intrisa da un odore acre di paglia umida e l’elicriso spandeva un aroma arido e antico, quasi scordato.
Dopo un po’ la donna sbucò dalla porta della cucina, asciugandosi le mani al grembiale. Fece uno sbadiglio lungo come una ragliata, a più riprese.
«Ossignore! Quando non dormo le mie sette otto ore, non riesco a tenere gli occhi aperti.»
La voce della donna pareva malata, un poco saponosa, floscia.
«Proprio sotto la finestra lo dovevano mettere quel benedetto palco. Per tutta la notte, finca alle toi ti notte… chiasso, tamburi, trombe. Ocristo!»
Masticava le parole facendosi il segno della croce, che scattava improvviso, rapido e, forse, incompleto.
«E poi, dico io, mica lo vanno a mettere sotto casa di lorsignori! Eh no!» Agitò una mano nell’aria e strinse le labbra a culo di gallina. «”Solo qui c’è lo spazio sufficiente per contenere il pubblico”» fece la donna con una voce in falsetto che voleva deridere un suo presunto interlocutore.
«Imana mia, dottò! Non ci ho visto più dalla rabbia. Signor “coso”, gli ho detto, io sono ignorante e me lo dico. Però i miei diritti ce l’ho. Che c’entrano tutti questi perché e percome! E’ vita questa? Dite voi, dottò… a tie te pare giustu? »
Io, che non dico mai una parola più del necessario, rimasi in silenzio, immobile. Non potevo non rispondere, ma non riuscivo a trovare le parole per non contraddire la donna. Esitai un po’, poi con un’alzata di spalle che voleva minimizzare l’accaduto, dissi:
«Beh! Qualche volta … per ragioni di pubblica utilità … bisogna passarci sopra. Non ci pensate più, tanto …»
«Gesummaria!» mi troncò bruscamente la donna, che si era a questo punto imbesuita. «Ecco… ecco… proprio così ha detto quel “coso”: ragioni di pubblica utilità. E’ il colmo! Ma cosa volete che ne sappiamo noi poveri ignoranti …»
«Adesso non pensateci più, vedrete che domani andrà meglio. Qui non ci sono molte cose da fare, per oggi. Tornate a casa e riposatevi … domani vedrete tutto sotto una nuova luce.»
La donna mi scrutava con i suoi occhi scuri che si schiudevano, buoni, sulla faccia tonda e scavata di rughe. Un sorriso le illuminò il viso e non disse nulla. Era felice che qualcuno la stesse finalmente ad ascoltare.
E’ una paciosa che vive soltanto per la famiglia: non sa fare altro e non capisce di più.
Prima di inforcare il suo acciaccato motorino, completò le sue faccende e mi salutò con grande stima.