“Muoviti, che facciamo tardi!”, gridava Tommaso al suo amico Luca, che arrancava sbuffando dieci metri più indietro. Luca era più piccolo e meno robusto, inoltre guidava ancora una bici da bambino.
“E dai, Tommy! Più veloce di così non ce la faccio!”.
“Mezzasega” – pensò Tommaso – “va a finire che troviamo i baracconi chiusi”.
Stavano progettando quella scappatella dalla settimana prima, pensando e ripensando a come fare per bigiare il doposcuola e recarsi alla fiera nel paese vicino senza farsi beccare. Quel giorno era l’ultimo utile, per cui o la va o la spacca, si erano detti. E quindi, da esperti galeotti della prigione scolastica, avevano atteso l’occasione giusta per fuggire dalla finestra dei bagni a pianterreno. Poi via con le biciclette attraverso viottoli di campagna: si allungava il tragitto di un bel po’, ma la strada principale era troppo a vista. Quello scemo del prof supplente manco conosceva i ragazzi che frequentavano le lezioni pomeridiane, non si sarebbe accorto che mancavano loro due. Forse. In quanto ai compagni di classe, poi, tutti complici omertosi. Le regole erano le regole, a nessuno passava per la testa di fare la spia. Certo che a tenere chiusi in un’aula dei ragazzi di prima media in quei pomeriggi di quasi estate, uno se la andava a cercare. Il doposcuola in teoria non era obbligatorio, ma praticamente si, con buona pace degli alunni maschi che, rassegnati, rinunciavano a scorrazzate in campagna, partite di pallone, battute di pesca. Per quanto riguardava le femmine, Dio solo sapeva cosa facessero fuori dalla galera, oltre a riunirsi a casa dell’una o dell’altra per fare i compiti.
Arrivarono finalmente, trafelati ed eccitati, nel piazzale che ospitava la fiera e – delusione delle delusioni – lo trovarono mezzo vuoto. Quasi tutte le attrazioni principali erano già partite, altre stavano sbaraccando.
“Merda! Te lo avevo detto di andare più forte!”, urlò Tommaso, frustrato.
“Non è colpa mia!” – piagnucolò Luca – “Siamo partiti troppo tardi!”.
“Troppo tardi un cavolo! Sei molle come un fico marcio! Con quel triciclo delle balle!”.
“Un po’ in ritardo, eh, ragazzi?”. La voce alle loro spalle li sorprese.
Si voltarono e videro un signore alto, vestito di scuro, che sorrideva con fare amichevole.
“Eh, brutta cosa arrivare in ritardo agli appuntamenti. Si rischia di non trovare più nessuno ad aspettarci. Ma siete fortunati, il mio carrozzone è ancora aperto. E vi prenderò solo un soldo ciascuno per visitarlo, oggi è stata una buona giornata.”
“E di cosa si tratterebbe?”, chiese Tommaso sospettoso.
“Ah, giusto, prima le presentazioni. Io sono Hamir, il mago degli specchi. O il signore degli specchi magici, se preferite. La mia è la più divertente galleria degli specchi che vi capiterà mai di vedere. Venite, venite, coraggio!”.
I due ragazzi si guardarono, poi fecero spallucce come dire: “Beh, sempre meglio di niente”. Certo l’ottovolante sarebbe stata un’altra cosa, ma ormai quello era andato. Seguirono l’uomo verso un lungo e vecchissimo caravan su cui campeggiava la scritta luminosa “THE MAGIC MIRRORS”.
“Dunque, giovanotti, prima il dovere e poi il piacere. Un soldino a testa, avevamo detto, e poi potrete entrare”.
Intascò le due monete e aprì la porta del carrozzone. Dentro era uno stanzone lungo, con una serie di specchi di varie misure, orientati di tre quarti rispetto all’entrata.
“Forza, guardate pure. La galleria è tutta vostra!”.
Tommy e Luca incominciarono a specchiarsi, e si videro ingranditi, rimpiccioliti, smilzi con la testa enorme, grassi e tozzi, oppure normali ma con mani e piedi grossi come badili, Luca con un culone spropositato, Tommaso con le orecchie da elefante. Insomma, uno spasso. Era davvero fico come promesso, se la ridevano di gusto mentre l’uomo se ne stava in un angolo, compiaciuto dal loro divertimento.
“Allora, meritava o no una visita, la mia galleria?”, chiese loro quando ebbero finito il giro.
“Altrochè!”, risposero all’unisono.
“Bene. Però a due ragazzi svegli come voi ho ancora di meglio da far vedere. Venite con me”.
Li condusse in fondo al carrozzone, dove si trovavano altri tre specchi che, a differenza degli altri, erano coperti da teli.
“Questi sono tre specchi davvero speciali, nessuno ne ha di simili, tranne il sottoscritto. Il primo è lo specchio della fantasia, provatelo!”, e così dicendo tolse il primo telo.
I due ragazzi si specchiarono a turno e si videro: Tommaso vestito come quel calciatore suo idolo, mentre palleggiava al centro di un grande stadio, con migliaia di spettatori ad applaudirlo e a meravigliarsi per la sua abilità; Luca invece come un trapezista del circo, tale e quale al personaggio principale del libro che aveva letto l’inverno scorso. Tuta scintillante e muscoli guizzanti, roteava sul trapezio a più di venti metri di altezza, la gente stava a guardarlo in riverente silenzio, col naso all’insù.
“Bello, bello!”, esclamarono.
“Se vi è piaciuto, ancora di più vi stupirà quest’altro, lo specchio dei desideri e delle speranze”, disse Hamir, e tolse il telo al secondo.
Tommaso guardò, e vide un se stesso giovane adulto. Era agghindato in un abito da cerimonia, e aveva a braccetto una bellissima ragazza vestita da sposa. Guardò meglio … Si, diamine! Era proprio Federica, la figlia del farmacista, che viveva in un mondo irraggiungibile a due file di banchi dal suo e che gli aveva rubato il cuore fin dall’inizio dell’anno scolastico. Luca invece si vide vestito da cacciatore, come suo padre alla domenica, panciotto e cartucciera compresi. Anche la doppietta era la stessa, e portava al guinzaglio un setter del tutto identico a Lupo, l’amatissimo cane da caccia morto l’anno prima a seguito di una grave infezione provocata dai morsi di un tasso inferocito. Rintuzzò una lacrima di nostalgia.
“E adesso il pezzo forte!” – esclamò Hamir togliendo il terzo telo – “Lo specchio della verità e della vita. E’ un po’ più grande degli altri, vi ci potete specchiare in due. Anzi, mi metto anch’io insieme a voi!”.
Si guardarono e si videro. Due vecchi, rattrappiti e stanchi. Luca sonnecchiava con la bocca aperta, Tommaso guardava nel vuoto, la mano sinistra scossa da un leggero tremito. Erano entrambi seduti ad un tavolo di una squallidissima sala, con le pareti dipinte in verde chiaro. Intorno a loro si affaccendavano infermiere. Alle loro spalle Hamir, invecchiato e curvo anche lui, i radi capelli gialli e stopposi, la faccia rugosa e rossa da avvinazzato, un sorriso lascivo e ammiccante.
“Bene, direi che è sufficiente”, disse il mago, e cominciò a rimettere i teli sugli specchi. Poi spinse verso l’uscita i due ragazzi ammutoliti, chiuse la porta del caravan, salì in cabina e mise in moto. Tommaso e Luca erano ancora fermi sul piazzale, senza muovere un muscolo.
“Beh, avete pagato per vedere e avete visto ciò per cui avete pagato. Ora tornatevene a casa, vagabondi!”. E partì sferragliando in una nuvola di fumo nerastro e oleoso.
Tommaso fu il primo a rompere il silenzio. “Mamma mia …”, mormorò.
“Che brutta cosa. Non la voglio vedere mai più.”, disse Luca.
“Manco io. Andiamo a casa.”
Recuperarono le biciclette e si avviarono lentamente.
Hamir percorse un paio di chilometri fino ad uscire dal paese, poi si fermò in una piazzola. Trafficò sotto il sedile e ne tirò fuori una cassetta di metallo, chiusa da un grosso lucchetto e con una fessura sul coperchio, a mo’ di salvadanaio. Vi introdusse le due monete, poi la soppesò brevemente. Era quasi piena. Un soldo risparmiato per ogni innocenza rubata. Di quel passo avrebbe saldato molto in fretta il suo debito. Il suo creditore era un tipo inflessibile, non ammetteva deroghe o ritardi. E la punizione per gli insolventi era indicibile. Scese dal caravan e andò ad orinare sul ciglio del fosso, poi risalì e rimise in moto. Aveva parecchia strada da fare per raggiungere la prossima destinazione. C’era tutto il tempo per studiare nuovi trucchi e nuove strategie.
Tommaso e Luca avevano percorso in silenzio quasi metà della strada di ritorno. Poi cominciarono a discutere e ad accordarsi su una scusa plausibile da usare se qualcuno avesse malauguratamente scoperto la loro fuga. Quando furono in vista delle prime case del paese accelerarono l’andatura, pensando alla cena.
Quella sera stessa ognuno di loro, prima di andare a letto, pregò segretamente di poter dimenticare in fretta l’avventura del pomeriggio.
Furono esauditi.