La fronte di Havryil era cosparsa di gocce di sudore che lentamente scivolavano lungo le scarne e glabre guance.
“Ottocento metri.” Pensò. “Ho ancora tempo.” Adagiò la testa sul proprio braccio e chiuse gli occhi per farli riposare. Sentiva il corpo ribellarsi all’immobilismo al quale era costretto da più di due ore. A peggiorare le cose ci aveva pensato il caldo estivo che lo aveva spinto a prosciugare, prima del tempo, le sue riserve di acqua. Il desiderio di casa spazzò dalla sua mente ogni altro pensiero mentre un pressante groppo alla gola si fuse, in pochi attimi, in vischiose lacrime.
Sergey aveva una gran voglia di fermarsi. Si era oramai abituato al dolore ai piedi, anzi, a dire il vero non se li sentiva più. Era indeciso nel considerare questa cosa un bene o un male. Quando si allenava con la sua Natalya ci teneva molto alla cura dei suoi piedi.
Natalya! Si chiese cosa stesse facendo la sua fidanzata in quel preciso momento. Nella sua immaginazione la rivide correre sulla pista ovale con indosso la sua tipica canottiera larga e i pantaloncini elasticizzati neri. Scoprì di essersi eccitato senza rendersene conto.
Havryil si destò all’improvviso. Gli ci vollero alcuni secondi per capire dove si trovasse. Poi si rammaricò con sé stesso per essersi appisolato.
“Seicento metri.” Sussurrò tra sé e sé.
Si accorse di avere fame, ma decise di tralasciare quel bisogno, ci avrebbe pensato più tardi. Ma allo stomaco non si comanda e quando iniziò a percepire cupi brontolii giungere dal suo addome, sorrise al ricordo delle sue spedizioni nella cucina di sua madre. La sua preda preferita era il pane caldo appena sfornato e lasciato a raffreddare sul davanzale della finestra sotto un telo di lino. Era facile rubarlo dal giardino di casa senza che la madre se ne accorgesse. Sorrise e si passò rapidamente la lingua sulle labbra.
Il sole accecante stava arrostendogli la pelle. Sergey a differenza di Natalya non gradiva affatto, in spiaggia, imitare le lucertole sotto il sole. Se ne stava invece per gran parte del tempo rintanato nel cono d’ombra dell’ombrellone, convincendosi ad abbandonarlo per entrare in acqua o solo quando l’irradiazione solare fosse divenuta inerme per la sua delicata pelle bianca. In estate gli amici li chiamavano latte e cacao, ma nonostante questo, e altre più significative differenze che distinguevano i due innamorati, Sergey e Natalya erano consapevoli di essere la coppia più invidiata in paese. Entrambi si crogiolavano a quel pensiero, ne traevano forza mentre il loro rapporto si rafforzava anno dopo anno. In entrambi si stava consolidando oramai l’idea del matrimonio.
Il ricordo del pane trasmutò naturalmente in quello della madre. Havryil la rivide intenta ad amalgamare l’impasto con movenze fluide e decise. Si ricordò di quando, pochi anni prima, ancora bambino si convinse che lei conoscesse il karatè e iniziò a raccontarlo a tutti i suoi compagni di scuola, aggiungendo di volta, in volta, ulteriori e rocamboleschi aneddoti fantasiosi. Giusto quel poco per rendere più affascinante la figura della madre agli occhi degli altri compagni.
Quando alcuni di questi racconti giunsero alla maestra, la madre di Havryil fu convocata a colloquio per dei chiarimenti.
Havryil iniziò a ridere della sua ingenuità infantile, ma soprattutto, per la dinamica della sua fuga per i campi al fine di evitare gli schiaffoni della madre. Iniziò a ridere sommessamente, approfittò del momento e utilizzò quell’ilarità inattesa concedendole corda per abbindolare la paura. Fu cosi che si lasciò andare in una sonora e prolungata risata che aveva molto in comune con un grido ma fu sufficiente per sciacquare via gran parte della tensione accumulata.
Il cellulare di Sergey iniziò a vibrare nella tasca. Sul display apparve il nome di Natalya e il volto del ragazzo s’illumino.
“Ti stavo pensando.” Le disse dolcemente. “Si fa caldo… Anche li?… L’università?… Certo che ci devi andare… Non preoccuparti io m’scrivo il prossimo anno… Quanto vuoi che duri?”
“Quattrocento metri. È il momento.”
Havryil si concentrò al massimo, prese mentalmente in considerazione tutte le variabili, e quando fu sicuro, trattenne il respiro e premette il grilletto.
Il ricordo di sé stesso bambino si polverizzò in un istante.
Udì gridare alle sue spalle.
“Cecchinoooo!”
I suoi commilitoni si gettarono a terra iniziando a rispondere al fuoco alla cieca, più per riflesso che per una logica strategica utile a scovare un nemico invisibile e distante.
Il caporale Sergey rimase in piedi, incurante del caos scoppiato intorno a sé. Non comprese immediatamente quanto stava avvenendo, e dopotutto, non gli interessava poi più di tanto. La realtà si stava opacizzando, i suoni della guerra sempre più lievi. Per puro caso si accorse che dal collo gli colava del liquido Era caldo, vischioso e solo in quel momento le gambe cedettero. Cadde di schiena sotto il sole cocente di agosto.
“Nemmeno un angolo di ombra.” Rifletté.
I suoi ultimi pensieri andarono a Natalya. Le urla spaventate della ragazza continuavano a giungergli dal cellulare, ancora stretto nella sua mano. Furono quelle le ultime cose che udì prima di spirare.