Cosa sarebbe la vita senza la bellezza? Uno spento incedere nelle tenebre della nostra esistenza. Così, ho speso tutta la mia vita non solo per cercarla, ma per plasmarla con le mie stesse mani. Queste mani che tale ricerca ha reso dure, callose e grinzose, pesanti come massi ma quando serve, lievi come una carezza. Stando a quello che dicono di me, sembra che abbia raggiunto anche buoni risultati. Sono ricercato dai committenti più facoltosi, essi sono disposti a pagarmi profumatamente per poter avere la bellezza che io e solo io, so creare. Sono ricco, sono bravo, sono Vulcha, per tutti gli Dei!
Prendo del fango e riesco a dargli vita, lo trasformo in qualcosa che rappresenta l’essenza dell’armonia, il piacere per gli occhi, l’eleganza più raffinata, la forza, a seconda dei casi. Nonostante tutto questo, non mi sono mai sentito appagato. L’appagamento che io cerco viene dalla perfezione ma io, dopo ogni opera completata, ho sempre percepito l’assenza di quel piccolo particolare che avrebbe reso la mia creazione perfetta. La bellezza non mi basta mai, voglio essere migliore per essere ricordato per sempre, alla stregua di un eroe e solo raggiungendo la perfezione io so che posso diventare immortale, io so che posso diventare un dio!
Ho plasmato decine di Aplu e nessuno di questi era perfetto, almeno come lo intendevo io. Così quel maledetto giorno, quando da Veio arrivò una delegazione per commissionarmi il trittico da porre sul frontone del tempio, affidai il lavoro ai miei apprendisti: Vulcha non mette mano direttamente a compiti che non siano largamente ricompensati e sinceramente, la cifra che mi proposero mi parve quasi un affronto. Tuttavia accettai, avrebbero avuto le statue senza il tocco del maestro, tanto da quell’altezza alla quale avrebbero dovuto essere posizionate, nessuno ne avrebbe notato la mancanza. In particolare la statua di Aplu la affidai a Eptesio, il mio apprendista greco, di discrete capacità. Aplu: rappresenta il dio della bellezza perfetta che io non sono mai riuscito fino ad ora a creare, per cui ogni volta che ho a che fare con lui, l’ispirazione mi abbandona ed i nervi mi saltano.
Eptesio si mise al lavoro con entusiasmo e così tutti gli altri e mi assentai per qualche giorno. Al mio ritorno avrei controllato i bozzetti dei miei allievi e dato il nullaosta per le sculture vere e proprie.
Al mio ritorno passai in rassegna i bozzetti: Cae aveva creato un Hercle pessimo, una muscolatura così abbondante da sembrare storpio; la Latona del giovane Lars aveva le proporzioni erano completamente sbagliate. Cosa mai aveva capito di quello che gli avevo insegnato! Mentre rimproveravo aspramente i miei due aiutanti, Eptesio mi stava guardando con una strana espressione.
“Ebbene?” gli chiesi. Questi sorrise con aria trionfante, e mi fece segno di seguirlo.
“Vieni maestro! Nessuno degli altri ha visto la mia statua, volevo che tu fossi il primo. Ho avuto come una folgorazione, forse la mia mano era guidata dallo stesso Aplu, e allora mi sono detto, perché limitarmi ad un bozzetto? Se tu credi che abbia sprecato materiale, sono pronto ad andarmene e a ripagarti il danno subito… ma sono sicuro che apprezzerai, che sarai molto contento di me!”
Lo scellerato aveva lavorato alacremente notte e giorno per farmi visionare l’opera quasi completa.
Cosa mi pareva? Rimasi stordito, senza parole. Rimirai il bellissimo ovale del viso, la muscolatura possente, la posa elegante, la prospettiva perfetta, il morbido drappeggio delle vesti che una brezza inesistente sembrava concorresse a fasciarne il corpo allo stesso tempo forte e sinuoso. Aplu mi osservava attraverso gli occhi vivi di quella statua e mi sorrideva prendendosi gioco di me.
Un insignificante allievo aveva superato il maestro stesso: aveva raggiungo la perfezione. Era stato Aplu, non Eptesio, solo una mano divina poteva superare il grande Vulcha, non di certo il miserabile apprendista greco.
“Come ti sei permesso di contravvenire alle mie disposizioni?” gli dissi infastidito.
Eptesio ammutolì, pensava davvero che mi sarei congratulato con lui? Aveva sopravvalutato la mia onestà d’animo, forse perché non conosceva la mia aspirazione.
“Scusa maestro, avevo pensato di far bene…”
“Hai pensato male!” gli urlai in faccia.
“Silenzio! Vuoi anche decidere la tua punizione?” In quel momento, un pensiero cattivo ma molto invitante prese il largo dentro di me.
Poi all’improvviso, mi pervase un senso di quiete interiore, la mia ira era sparita “Devo decidere il da farsi…” gli dissi con calma “continua a lavorare ad una bozza che sia migliore di questa… questa statua orrenda, Aplu deve essere più femmineo. Voglio parlarti stasera, dopo il lavoro, quando gli altri se ne saranno andati”. Quasi gli sorrisi.
Eptesio intese quel mio cambiamento di umore, come un gesto di fiducia nei suoi confronti.
Al calar della sera, quando l’ultimo apprendista se ne fu andato, ordinai a Eptesio di non spengere la fornace, adducendo che dovevo cuocere un paio di antefisse. Egli rimase ed era contento di aver schivato la punizione. Cuocemmo una testa di satiro ed una di menade. Ammirammo il risultato alla luce delle torce. Poi, finsi di essere stanco. Chiesi a Eptesio di portarmi del vino e lo invitai a dissetarsi insieme a me. Per quello stupido fu un onore sedere al tavolo insieme al grande maestro Vulcha… che però non bevve. Quel pensiero crudele mi aveva ossessionato tutto il giorno e questa ossessione mi era piaciuta, alla fine l’avevo fatta mia. Non potevo di certo affrontare il mio aiutante uccidendolo con metodi tradizionali; io sono vecchio, lui è giovane, probabilmente avrei avuto la peggio. Inoltre ci sarebbe stato del fracasso e qualcuno avrebbe potuto udire qualcosa. Così, lui bevve e quasi subito il veleno cominciò a fare effetto. Quando si accorse che la sua gola stava bruciando e la sua vista cominciava ad offuscarsi, mi guardò stupito ma non so se ebbe il tempo di capire il perché del suo omicidio, se ne andò dopo qualche spasmo, in meno di un’ora. Quando smise di muoversi, controllai che fosse morto davvero. Ripensandoci poi, fu uno scrupolo inutile, anche se un ultimo fiato di vita gli fosse rimasto, non sarebbe sopravvissuto di certo alla fornace. Questa rimase attiva quasi tutta la notte. La mattina successiva di Eptesio non c’era più nessuna traccia. Dissi agli altri apprendisti che l’avevo mandato via a causa della sua insolenza e nessuno fece altre domande. Da quel momento in poi, l’Aplu perfetto diventò il mio Aplu. La verità lascio a questo memoriale, che forse qualcuno leggerà dopo che non ci sarò più. Sono passati dieci anni da quell’evento ed il rimorso mi attanaglia. Per tutti ora sono il grande Vulcha, quello che ha plasmato il meraviglioso Apollo di Veio, ma il dio non mi ha dato tregua per tutto questo tempo e nessuno sa della mia condanna. Scrivere la verità mi alleggerisce un poco questo spirito gravato. Costa così tanto diventare immortali!