Alessandria d’Egitto: mese di amphiles (maggio)
Fu Haralio che mi coinvolse nell’impresa; lui si sentiva forte ed invincibile come il divo di cui portava il nome. Chissà perché sua madre lo chiamò proprio così! Forse per nascondere dietro ad un nome altisonante una nascita bastarda, visto che la poveretta non volle mai dirgli chi fosse suo padre portando nella tomba il segreto. Lei non volle mai rivelare chi fosse, ma gli altri contadini che lavoravano al servizio di Aranth, pareva non avessero dubbi in proposito: il padrone un tempo aveva messo gli occhi sulla bella Tlesnei che non poté sottrarsi, o non volle, come sussurravano i più maligni; il risultato di questo fu appunto il mio sciagurato amico.
Non che Aranth li avesse trattati con quel disprezzo arrogante che spesso i nobili esercitano sui loro sottoposti, forse era stato veramente rapito dalla bellezza di Tlesnei; di certo non riconobbe come legittimo il frutto della loro relazione ma guarda caso, poco tempo dopo la nascita di Haralio, Tlesnei abbandonò la campagna e tirò su una locanda in città, facile intuire la provenienza del denaro necessario.
L’infanzia di Haralio non fu ricca e neanche misera ma il sospetto e le prese in giro sulle sue origini, fecero crescere nel suo petto un odio viscerale nei confronti del suo padre naturale ma anche verso tutta la classe dominante della città.
Così Aranth un giorno morì e Haralio mi disse: “voglio prendermi ciò che è mio!”
A quei tempi ero un giovane fannullone, il cruccio di mio padre che non avevo voluto seguire nella sua attività di commerciante; ero perennemente in cerca di soldi che se ne andavano tra vino, bische e donne e soprattutto non avevo paura di nulla.
La proposta di Haralio era allettante; saremmo diventati ricchi, saremmo scappati in un paese straniero dove avremmo vissuto tra i vizi più sfrenati senza versare una goccia del nostro sudore per guadagnarci da vivere!
“Profanare una tomba?” fu solo questa semplice domanda l’unico lieve soffio di una parvenza di scrupolo da parte mia.
“Non vorrai credere alle stupidaggini che raccontano gli aruspici e i vecchi!” fu la risposta di Haralio.
“Certo che no!” ribattei.
Aranth era stato sepolto con tutti gli onori nella tomba che secondo l’uso, si era fatto costruire in vita. Con sé aveva portato oro, argento, ambra, avorio. Haralio era convinto che tutto ciò spettasse a lui di diritto ed io invece pensavo già alle chiome ondulate delle danzatrici persiane ed ai profumi soavi delle etere egizie che avrei potuto permettermi con la mia parte di bottino.
Decidemmo di agire subito prima che gli effetti della decomposizione rendessero impossibile penetrare all’interno del sepolcro.
Non avevo idea, allora, di quello che questa terribile impresa avrebbe potuto comportare.
La notte stessa dopo la sepoltura, mettemmo in atto il nostro piano. Fu tutto molto facile, nessuno ci notò. Riempimmo i nostri sacchi di tutto quello che potevamo portar via; gli slacciammo anche i sandali perché avevano bordure d’argento, gli rubammo anche il sudario ricamato di fili d’oro. Utilizzammo un piccolo carro per poter trasportare tutto e fuggimmo in direzione della costa dove ci saremmo imbarcati in una delle navi che raggiungevano l’Egitto.
All’alba, quando le donne sarebbero andate ad unguentare il corpo di Aranth, avrebbero scoperto il furto sacrilego, ma noi saremmo stati già lontani.Eravamo pervasi da una brama smaniosa, ci sentivamo forti, sicuri, diretti alla realizzazione di tutti i nostri sogni, ubriachi di avidità.