Lo tiravano fuori come le piante, quelle che quando è brutto e freddo devono stare dentro al coperto, appariva d’improvviso d’estate per qualche ora, in giorni imprevedibili, nella solita piazzetta in via della Sparna, di fronte al portone della cantina e alle scale che salivano a casa della zia di Stefano. I ragazzini di dieci, dodici anni, abituati ad usare quello spiazzo per i loro giochi, arrivavano di corsa e frenavano tamponandosi quando girato l’angolo se lo trovavano d’avanti. I più piccoli scappavano subito, i grandi bisbigliavano qualcosa e andavano via. Seduto sulla sua seggiola, Ildebrando non faceva una piega, vegetava godendosi le ore d’aria. Era un vecchio vecchissimo, piccolo ma solido come il tufo, sembrava tutt’uno con la sedia, vestito con un completo grigio fumo e un cappellaccio in testa, in bocca una pipa fatta con il torsolo della pannocchia e un paio di occhiali con lenti astronomiche. Non parlava, nessuno del paese lo veniva a trovare, nessun anziano, parente, vicino, medico, proprio nessuno. Passava il tempo tenendo in bocca la sua pipa, quasi sempre spenta, e facendo scorrere la saliva su e giù per il bocchino e il fornello. Il fruscio era schifoso, ma nella piazzetta diventava presto familiare a tutti, come il garrito delle rondini. Questo costante sciacquio a tratti si interrompeva, era la premessa allo scaracchio che sarebbe partito di li a poco in direzione imprevedibile; quando rimaneva fuori due o tre ore, intorno a lui per terra se ne contavano una mezza dozzina. Una volta Stefano fu beccato in pieno mentre tentava di salire le scale di zia e lo scarso affetto che il ragazzino nutriva per questo nonno di non si sa che grado di parentela, diminuì ulteriormente. Stefano insieme agli amici suoi nelle giornate di noia, esauriti tutti gli altri giochi in strada, approfittava del vecchio orbo, si avvicinavano in silenzio il più possibile, gli facevano gestacci o gli mostravano il culo trattenendo il riso pronti a evitare l’implacabile scatarrata. Ildebrando ogni tanto però avvertiva la presenza dei mocciosi con l’ultimo senso che gli era rimasto, si toglieva la pipa di bocca e bestemmiava Dio con tutta la fauna della Toscana, spaventandoli a morte. I più piccoli e coraggiosi si divertivano a fargli il rumore del risucchio da dietro l’angolo, ridevano come pazzi ma il vecchio non li sentiva neanche. Una volta accadde una cosa mai vista, Stefano uscendo di casa notò la sedia vuota, si guardò intorno e corse come un razzo a chiamare gli amici che arrivarono in quattro o cinque per non perdersi la scena. Ildebrando si era alzato, aveva fatto un gradino, e lentamente poggiandosi al muro con l'aiuto di un bastone, si dirigeva verso la porta del cessetto che era sotto casa di Stefano. Non l’avevano mai visto in piedi, stava curvo, e non vedendo quasi niente, procedeva a tastoni per i pochi metri che lo separavano dalla porta, ansimando con la pipa in bocca e il cappellaccio sempre in testa. I ragazzini lo guardavano senza pietà come si guarda un animale ripugnante. Finalmente Ildebrando entrò nel gabinetto lasciando la porta aperta. Marino, uno del gruppo, ebbe il coraggio di affacciarsi per osservare: guardava e si girava, mimando in modo esagerato le manovre del vecchio e facendo sghignazzare gli amici seduti sul muretto. Solo le urla della zia affacciata alla finestra misero fine allo spettacolo. Da fine agosto Ildebrando non fu più esposto, i ragazzi continuarono i loro giochi nell’indifferenza, videro solo la zia di Stefano che un giorno apriva la cantina con la sedia del vecchio in mano.
Poi un pomeriggio caldissimo, mentre ciondolavano fuori dal paese, appena superato il cimitero videro venire incontro un piccolo corteo funebre, una decina di persone in tutto: la macchina davanti, il crocione dietro. Si fermarono poggiati al muretto in segno di rispetto, mentre la macchina si avvicinava lentamente.
“Chi è morto?”,
“Bo’”.
Subito dietro il crocione c’era la zia di Stefano, e dietro di lei Stefano con un fascio di fiori in braccio. Camminava lento con aria imbarazzata pettinato per la prima volta in vita sua; camicia stirata, pantaloni corti ma eleganti, sandali con gli occhi. Quando il suo sguardo si incrociò con quello degli amici, l’espressione seria che aveva tenuto fino a quel momento svanì e un sorriso beato e ingenuo gli si stampò sulla faccia.
“E’ il tu' nonno?” gli chiese Marino.
Con un cenno del capo Stefano gli rispose “sì”, cercando inutilmente di tornare serio.
I ragazzi appena passato l’ultimo parente si avviarono pensierosi verso il paese. Ad un tratto Marino fa uno scatto urlando: “Chi arriva ultimo è Ildebrando!” e tutto il gruppo si lanciò a perdifiato giù per la discesa sotto il sole cocente.