Dopo-pranzo festivo di inizio primavera. Me ne vado a passeggio in campagna, armato della reflex che la mia famiglia mi ha regalato per il compleanno di qualche giorno prima. Cammino sul sentiero che costeggia l’argine di un canale, alla mia sinistra filari di pioppi, regolari e geometrici come si vedono solo da queste parti. Vorrei scattare qualche bella foto, non ho nessun talento da fotografo ma ci provo, devo giustamente onorare il regalo ricevuto. Mi avvicino ad un giovane albero che ho già visto e che è spuntato un paio di anni fa fuori dagli schemi del pioppeto, come una variabile impazzita; sarà stato un ramo abbandonato ma ancora carico di germogli, che ha fatto fortunosamente talea ed è cresciuto solo per propria volontà, senza intervento agricolo. Mi accorgo che il piccolo tronco è sfregiato, qualcuno ha cercato forse di abbatterlo a colpi di roncola o di falcetto, senza riuscirci e abbandonando a metà l’opera. Ho qualche cognizione da coltivatore dell’orto dietro casa, so cosa si può fare per cercare di curare l’albero: scavo con le mani sulla riva del canale e raccolgo un po’ di terra sufficientemente fangosa, poi inizio a spalmarla sulle cicatrici, riempiendo tagli e ferite. Sono intento a lavorare e quindi non mi accorgo della presenza dell’uomo fino a quando non mi è vicino.
“Sic a l’è in vià a fà?” (cosa sta facendo?), mi chiede. Mi sta dando del lei in dialetto.
E’ Guido, di cognome ignoto tanto quanto le sue origini e la sua età, tutti quanti lo chiamano “Muro” perché se gli fai domande lui ti guarda fisso e non risponde, come parlare con un muro, appunto. Clochard stanziale, vive da queste parti ormai da parecchi anni, forse una decina, campando di assistenza sociale e carità domenicale. Non si può definire un homeless perché in effetti una casa ce l’ha, poco più di una baracca per attrezzi agricoli abbandonata, da lui requisita e trasformata in rifugio con una branda, un tavolo e qualche sedia, una enorme stufa-cucina a legna, regalatagli dal custode della locale discarica.
Confesso che mi fa un po’ paura; è in uniforme di ordinanza, con l’impermeabile di origine militare che porta in tutte le stagioni, la borsa di tela a tracolla, gli stivali di gomma da risaia e soprattutto la lunga verga di legno di gaggìa, robusta e dritta, resa lucida dall’uso. Lo si è visto spesso andare in giro per il paese a stanare con quel bastone bottiglie abbandonate e romperle (crash!) con un colpo stile kendo, urlando “T’la chì n’atra!” (eccone un’altra!) come un samurai, per poi raccogliere i cocci e depositarli diligentemente nel primo cassonetto a portata di mano.
“L’ho trovato così, sto cercando di coprire i solchi se no il tronco marcisce”.
Si accovaccia vicino a me. Scopro, vergognandomi, che odora di sapone da bucato: avevo pregiudizievolmente immaginato effluvi da stalla. Solo l’impermeabile sa un po’ di umido e fumo di legna, ma non in modo sgradevole. Apre la bisaccia e tira fuori un sacchetto di plastica appallottolato, lo apre e lo taglia lungo le pieghe con un piccolo coltellino, fino a farlo diventare un foglio. Lo avvolge intorno alla parte ferita del tronco e poi lega tutto con dei pezzetti di spago che ha cavato sempre dalla onnicapiente borsa.
“Mit la tera l’è no a sé, al và a quarcial” (mettere la terra non è sufficiente, bisogna fasciarlo), mi spiega.
“Da chì a quindes dì vidaruma me l’è andaj” (da qui a una quindicina di giorni vedremo com’è andata).
“Ah, allora verrò a vedere”.
“S’al vora. Ma ca s’incomuda no, mi pas da chi semper, a fà legna”. Si alza. “Beh, mi ades dev’andà”.
“Anch’io. Ci si vede. Buongiorno”.
“C’aspeta un mument, per piasìr” . Tira fuori dalla borsa un quaderno, poi mi chiede:
“Am disarìa mi ca s’ciama lù?”, mi sta domandando il mio nome, in modo molto cortese. Non posso fare a meno di rispondergli, lui scrive e io – sciagurato - mi faccio assalire dalla mia solita e inguaribile curiosità.
“Scusi, posso sapere che cos’è?”, chiedo indicandogli il taccuino. Sorpresa! Mi risponde, e scopro così che tiene questi diari da sempre, ci appunta il nome dei luoghi che ha visitato, le indicazioni per arrivarci e le persone che vi ha conosciuto.
“Solo quelle gentili, però” mi dice sorridendo. Chissà perché, mi sento orgoglioso di essere stato incluso nel suo elenco, e lo ringrazio.
Mi racconta brevemente che tiene anche altri diari dove segna settimanalmente il livello delle acque del Po. Tutti i giovedì si reca a piedi fino al grande ponte prima della città di ****** (più di venti chilometri, tra andata e ritorno), scende la scalinata che porta al declivio dell’argine e va a leggere il livello sull’indicatore fissato al pilone; quando non lo può fare perché il fiume è alto e la scalinata viene chiusa al pubblico, scrive “ALTO” oppure “PIENA” nella riga corrispondente alla data di quel giorno, con una matita rossa. Non gli chiedo il perché di questa sua attività, penso siano affari suoi. Ci salutiamo e lui si allontana verso la campagna.
Ho rivisto Guido molte altre volte, dopo quel giorno. Per la maggior parte, lo incrociavo mentre procedeva a passo di marcia, indaffarato in uno dei suoi misteriosi itinerari; alzava una mano e mi faceva un cenno con la testa per salutarmi. In altre occasioni ci siamo fermati brevemente a parlare, e così ho saputo che l’albero ferito stava guarendo e che “l’è no un piùp, l’è un urmòn servadji” , non era un pioppo ma piuttosto un olmo selvatico, cresciuto di sua sponte.
Se n’è andato, Guido, qualche tempo dopo. Una sera d’autunno con nebbia da affettare, mentre camminava sul ciglio della statale di ritorno da un paese vicino, una macchina lo ha travolto senza fermarsi a soccorrerlo. Morto sul colpo, hanno detto. Hanno anche detto che forse altre due auto sono passate sul suo corpo, sempre senza fermarsi. Mi è dispiaciuto molto quando l’ho saputo.
Adesso ogni tanto ripenso a lui e, va a sapere perché, me lo figuro come un fauno o un folletto dei boschi.
Guido, barbone, naturalista e geografo per passione, che era Muro per tutti tranne che per pochi, tra i quali – senza alcun merito – il sottoscritto.