Il suo posto abituale è in fondo alla sala. È raro che qualcun altro lo usurpi. Succede solo durante le feste quando una ciurmaglia di turisti ammorba il casinò con afrori d’ascelle e giacche da mercato rionale. Sono le uniche occasioni in cui la Signora Magda diserta la casa da gioco.

È sempre ben pettinata. Giampiero, il suo parrucchiere, le acconcia la testa con eleganti riccioli, forse troppi, a furia di abbondanti dosi di lacca. Un colore troppo biondo non si addice alla sua età, ma lei ci tiene a contraffare l’inesorabile grigiore.

Siede davanti alla macchinetta in una poltrona che è un tutt’uno con essa. Un prolungamento che la fa assomigliare al posto di comando di una navicella spaziale in un film di fantascienza. Non che sia inconfortevole, anzi! Tuttavia, la Signora Magda rimpiange la calda sofficità delle sedie di una volta, rivestite di velluto, e addirittura la durezza degli sgabelli di quando al casinò si entrava solo con giacca e cravatta per gli uomini e in abito elegante per le signore.

Non ci sono più le slot di una volta… La fessura dove s’infilavano i gettoni restituiva al gesto la ricompensa di un cozzo metallico che riecheggiava nelle viscere della mangiatrice di soldi. Il gorgoglio che seguiva l’impulso dato alle leva traduceva l’acrobazia tra il ludus e l’alea in un trastullo dal sapore di fine ottocento.

Quand’era meno vecchia, esistevano ancora i secchielli di plastica, simili a quelli usati dai bambini per fare torri di sabbia alla spiaggia, pieni di dischi che si fingevano monete. E ogni gettone introdotto nell’apposito alloggiamento, prometteva tra un “cling” e un “ciac” se non proprio un’illusione di vittoria, almeno la promessa di un tempo consacrato a qualcosa d’ineludibile: il caso.

La Signora Magda infila alcune banconote nell’arnese elettronico. La fenditura le succhia come una vagina aspira l’accessorio più prezioso dell’uomo. La sua ha da tempo abiurato tali velleità: non appartiene più a nessuno e l’unica cosa che la signora possiede è la sua fredda sete d’oblio. 

Tra i valletti di sala si mormora che sia vedova. Altri pettegoli malignano di una figlia morta suicida e di un divorzio da un ricco uomo d’affari californiano di Monterey, il quale le passerebbe una rendita mensile di mezzo milione. 

Il display certifica il credito spendibile. Sullo schermo ruotano ciliegie, grappoli d’uva, 7 e BAR. L’indice schiaccia il pulsante dello spin con un gesto robotico. La signora ha lo sguardo minerale di chi ha mentito troppo senza aver ancora perso il vizio di farlo. La sua ricerca di ripetizione è bisogno di simmetria. E, specularmente, Magda si lascia andare alla gioia dell’improvvisazione cinetica, alle varianti nascoste nell’infinito degli algoritmi. L’unica cosa che non le manca è il tempo. Così almeno crede.

Poco distanti da lei, davanti a marchingegni analogamente sofisticati, alcuni ragazzi “surfano” tra ohh e ahh. Quelli dietro, in piedi, commentano ogni colpo con locuzioni poco urbane.

La giocatrice ha la rigidità di una statua. Osserva scorrere le combinazioni senza curarsi di perdite o vincite. 

All’improvviso, un trillo gaudente annuncia il risultato che tutti nella sala agognerebbero. Jackpot! La macchinetta mima il suono del passato, una cascata di monetine vertiginosamente derisoria.

I ragazzi la guardano di traverso, gelosi della sua fortuna e disgustati dalla lunghezza del gorgheggio.

La signora schiaccia il bottone che sancisce la fine del gioco, la sua rivalsa sulle sconfitte insipide di tutta una vita.

Le luci colorate della sala accentuano il pallore del suo viso. Si alza, recupera la borsetta appoggiata per terra, infila la giacca del tailleur su una camicetta a fiori che sembra la tappezzeria di una vecchia poltrona. Il ticket in mano, si avvia alla cassa. Conta le banconote e, distrattamente, ne allunga una al valletto che le apre la porta.

Lui sorride, ringrazia, s’infila la mancia nella tasca dei pantaloni senza neanche chiedersi se il cuore della Signora Magda a un certo punto abbia avuto un fremito d’esultanza.

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