Anni dopo il “ volo non pindarico”, avevo circa 12 anni, solita estate, con cugini, nonni, bisnonni, zii vari e scarpinate su per viottoli, mulattiere ombrate da querce e faggi, ruscelli gelati e melmosi .
La settimana organizzata per la vacanza, ora si direbbe ecologica, nella casetta spartana ma magica, sembrava iniziata con allegria e tante aspettative.
Partimmo, lancia in resta, una decina di fratelli e di cugini, io guidavo la combriccola
infantile tutta baldanzosa, calzoncini bianchi ma per poco, cappellino di paglia e unica fortunata un bel paio di scarpe bianche, anche loro per poco, da tennis.
Con noi c’erano i cosiddetti “famigli”, contadini che aiutavano la bisnonna nei campi, dovevano andare a mietere il grano lassù nei campi e ci affidarono a loro e a due zie per accompagnarci nella camminata.
Camminata per modo di dire, ovviamente a piedi necessitava di circa tre ore di tempo.
Furono tante le soste “ la pipì, la pupù, ho fame, sono stanca, lui mi ha dato un calcio, lei mi ha spinto… ”tanto che ad un certo punto una delle zie che doveva fare da guardiana del gregge “nipotizio” ci mise in file e ognuno di noi doveva tenere una corda che era retta ai due capi dalle zie.
Cantavano gli altri, io no, stonata come una campana avrei fatto fuggire anche le lucertole, come lo sono anche adesso, non canto neanche in bagno!
Cominciai a sentire una sensazione di vuoto, quasi di perdizione, eravamo appena appena a metà strada ma sentivo come una mano che mi trattenesse anzi che mi spingesse indietro. Da grande compresi cosa fu quella sensazione, la mia malinconia ancestrale, quel malessere che rabbuia il cuore, spaventa l’anima e offusca la vista.
Arrivammo in fondo ad una salita che si apriva su un immenso campo di grano, già mietuto, corsero tutti gli altri per tuffarsi nei covoni ma io rimasi impietrita, come una statua di sale.
Poi cominciai a tremare e a piangere.
Non era un pianto “decente”, era un pianto agli occhi degli altri immotivato e capriccioso.
Poi urlai e urlai, non comprendevo cosa mi stesse accadendo.
Volevo e imploravo mamma, mamma, voglio la mia mamma.
Una tenaglia mi stava dilaniando le viscere, la mente e il cuore, mi vedevo perduta, le mani delle zie che mi accarezzavano, gli abbracci che mi davano peggiorarono la situazione.
Non ci fu verso di calmarmi, dicevo “ voglio tornare a casa ora, subito”, a quel punto ormai disperata di recuperarmi alla ragione una delle zie mi prese per mano e ci avviammo verso casa.
Incoscienti tutte e due perché il pomeriggio era ormai inoltrato e fare quasi due ore di strada del ritorno era piuttosto rischioso.
Giungemmo a casa della nonna materna quando le prime luci dei lampioni si erano accese.
Mia madre non domandò il perché, mi strinse a sé, sapeva che non avrei resistito più di tanto, le stavo sempre appiccicata e soffrivo della sua mancanza in modo indicibile.
Sono diventata adulta, ma mai quel legame è stato scalfito da lontananze, vicissitudini e ovvia crescita.
Quando mia madre ci lasciò, io ormai adulta, ma sempre bambina e figlia, restai accanto al suo letto mano nella mano per giorni, sino al suo ultimo respiro che io rubai per me, da quel momento non più figlia.