Terminata la scuola, a metà del mese di giugno, iniziavano le vacanze estive.
Le attendevo con ansia, trepidazione, eccitazione e curiosità. Perché io, fortunato, trascorrevo un mese in campeggio al mare, in roulotte, con la mia mamma. Il mio babbo, ancora impegnato con il lavoro, ci raggiungeva ogni venerdì sera e rimaneva sino al lunedì mattina.
La fortuna non era tutta qui. Trascorso il mese al mare, verso la fine di luglio, come zingari si partiva in giro per lunghi viaggi. Abbiamo pure varcato i confini continentali: Marocco!
Sto divagando. Noi bambini non possediamo la logica di un adulto, siamo scoppiettanti, saltelliamo da un pensiero all’altro con velocità, senza perderne il collegamento.
Io mi sento come un’acrobata del circo. Volteggio mentre chi mi ascolta e legge e guarda con il naso all’insù, verso la cupola colorata del tendone, non comprende come io riesca nell’impresa.
Non era questo che volevo raccontarvi. Ma questo, perdonandomi, spero, per le interferenze da bambino. Ma lo sono.
Era il 1980. Avevo concluso il percorso elementare con l’esame di quinta. Non mi spaventò. Ero un veterano, oramai. L’esame di seconda mi aveva fatto le ossa.
Era l’estate dei miei undici anni e il campeggio era libertà assoluta. Costume, maglietta e piedi scalzi per un mese. E chi si vestiva più dopo? Una volta che si era piazzata la roulotte cercando la posizione migliore e orientandola in base alla rotazione terrestre (il mio babbo è un poco pignolo, non diteglielo, per favore che si arrabbia. È un poco permaloso, non ditegli neppure questo) si partiva in perlustrazione tra i viottoli ortogonali identificati con i nomi di stelle e costellazioni per cercare i compagni dell’anno precedente. I campeggiatori, benché spartani e liberi, tuttavia quando trovano un buon campeggio e buona compagnia, tendono all’abitudine.
Stavo percorrendo Via Sirio, subito dopo aver incrociato Via Venere, che mi sentii chiamare. Mi fermai e vidi una donna che mi chiamava. Il mio pensiero veloce iniziò a cercare affannato come un lagotto romagnolo il prezioso tubero, ma l’olfatto non fu soddisfatto. “Sono Sara!” – mi disse con un’inflessione scocciata. Era di Trento, ricordai. Sara la nuotatrice. Era carina lo scorso anno, mi piaceva. Aveva un anno più di me. Indossava un camicione azzurro come gli occhi, sbottonato. Le gambe già abbronzate e muscolose, sostenevano un fisico asciutto e un seno che l’hanno scorso non c’era mica. Rimasi muto per un attimo, ma a lei parve più lungo, poiché mi invitò bruscamente a sedermi sotto la veranda. Prese una bottiglia di Coca, di quelle in vetro, e due bicchieri. Era bellissima. Non la bottiglia. Mi sentivo in imbarazzo. Io sembravo, ero, ancora un bambino e lei, invece una donna. Parlava, parlava, ma non la sentivo. I miei occhi, mi rendevano sordo. Capii solo: “Domattina…spiaggia…passeggiata”. Risposi solo con un incerto: “Sì!” e sorrisi. Funziona sempre. Il mattino dopo le nostre orme si imprimevano sulla battigia, come i suoi occhi nei miei. Il mare alla nostra sinistra. La mia timidezza era evidente. Mi raccontò delle gare di nuoto, delle coppe, delle medaglie, poi si interruppe. “E tu? Che fai?” Non avevo da raccontarle alcunché di me. Il mio fisico non era certo adatto allo sport. Ero alto poco più di un metro e quaranta. Pesavo non più di quaranta chili. “Io scrivo” – le dissi. “Scrivo racconti. Fantasia, realtà e fantasia, brevi poesie…anche…” “Sesso?” – mi chiese con enfasi inquisitoria. “Beh..ecco…” “ Sì o no!” “ Sì!” Rimanemmo in silenzio. A volte le nostre mani si sfioravano, inavvertitamente, altre si cercavano con la punta delle dita per intrecciarsi, altre si intrecciavano per un attimo per poi lasciarsi.
Nei punti in cui l’onda accarezza la sabbia sulla battigia e vi deposita conchiglie, tra queste era frequente trovare dei Dentalium. Era facile. Tra gusci bianchi e rotondi e carapaci di granchio, una piccola zanna di elefante si nota e risalta ad uno sguardo attento. Dall’inizio del cammino ne avevo già un pugno pieno. “Me le fai leggere?” La domanda mi sollevò i peli delle braccia. Non le risposi se non con un “Mhm mhm!” di assenso.
Ancora silenzio. Improvviso, un richiamo di aiuto provenire dal mare lo infranse. Un vecchio barbuto si era impigliato nella propria rete da pesca poco lontano dalla riva e non riusciva a districarsi. L’acqua non era alta. Sara corse subito in suo aiuto. Altri bagnanti la aiutarono. Io non potevo abbandonare le mie conchiglie. Raggiunta la riva, il vecchio ringraziò tutti e si avviò oltre le dune con la rete da riparare. Ci fece cenno di seguirlo. Aveva la pelle coriacea: lo sparto pungente le era indifferente. Lo chiamavano Sandokan. Viveva in un casotto improvvisato tra il cordone dunoso. Solo l’estate, però. Aveva occhi penetranti. Mi chiese cosa avessi in mano e aprii il pugno. Sorrise. Prese una vecchia lenza e infilò i Dentalium abbinando la sequenza in base alla sfumatura di colore. Terminate le conchiglie si era composto un bel gioiello che mi porse con le mani callose e uno sguardo complice. Lo presi tra le mani e guardai Sara. Sembrava felice. Lo era. Glielo legai al collo. Salutammo Sandokan e ritornammo al campeggio.
“Stasera dietro il bar. Porta da leggere! Io prendo la lampada!”
Dietro il bar c’era un boschetto di tamerici poco illuminato.
La protagonista dei miei racconti era lei. Li avevo scritti l'anno prima. Era curiosa ed affascinata. Non erano volgari.
Mentre le stavo rileggendo una parte che le era piaciuta. Si sfilò il camicione. Eravamo seduti a terra, fianco a fianco. Pensai: "Ti prego, non farlo, non farlo!” Il mio desiderio non fu esaudito. Si slacciò il reggiseno. Mi guardò. Mi prese una mano. Il capezzolo pungeva il mio palmo. Aveva gli occhi chiusi e li suo respiro era rilassato. Chiusi gli occhi anch’io. Sentii il calore del suo alito vicino al mio. Ero terrorizzato. Ci baciammo.
Fu naturale. Come se lo avessi sempre fatto. Come se fossimo nati per baciare.
Una sua mano si spostò tra le mie gambe tentando di intrufolarsi dentro il costume. Riuscì nell’intento, ma non era soddisfatta. Lo voleva non solo toccare, ma stringere. Quando lo ebbe in mano, staccò le sue labbra dalle mie, mi sorrise e i Dentalium iniziarono a sussultare. La risacca si placò quando, come anche ora mi accade, esplosi in una irrefrenabile risata.
Sara mi osservò. Lo sguardo non era lo stesso. Quello del mattino, mentre camminavamo sulla spiaggia, intendo. La mano che timida aveva cercato la mia, ora era bagnata di me. Sara leccava.
Scrivo ancora e Sara mi legge ancora.
Le nostre dita sono ancora intrecciate, come sulla spiaggia di quell’estate.
La collana di Dentalium è tra i nostri preziosi ricordi.
Anche se non imprimiamo le stesse orme sulla stessa sabbia.