Si conobbero tra i banchi del ginnasio, Tea e Lae. Fu un colpo di fulmine, ma non amoroso; era molto più profondo e penetrante.
Erano contemporaneamente il sole e la pioggia, la calma ed il vento. Studiavano insieme, bighellonavano per i viottoli di campagna insieme. Sulle panchine del parco lui le leggeva l’Iliade e lei “Gita al faro”. Litigavano, discutevano si imbrigliavano in controversie assurde e complicate che duravano giorni e giorni.
Nessuno dei due voleva mai cedere all’altro l’onore della vittoria.
Al liceo le forme di Teodora attiravano l’attenzione dei maschi che non si capacitavano di come a lei potesse piacere lui. Non atletico, col viso delicato e minuto.
Una domenica mattina, all’interno del Duomo, Lae la prese per mano.
Era la prima volta che si toccavano, e la condusse sulla cantoria.
“Questa è la voce di Dio. Un giorno costruirò organi a canne. La voce di Dio mi chiama a sé. Entrerò in seminario dopo l’esame di maturità”. Tea non si scompose alla notizia. Era stupita dalla consolle dell’organo. Sembrava un marchingegno creato dalla fantasia di Verne.
Lae iniziò a spiegarle le funzioni di tutti quei pomelli incastonati nel legno. Lo ascoltava affascinata.
La scuola finì. Sostenuto l’esame avevano più tempo libero e volevano che durasse il più a lungo possibile: la partenza di Lae era prossima. Un afoso pomeriggio d’agosto in sella alle bici raggiunsero l’isola del vecchio mulino che divideva in due il corso del fiume.
Vicino al ponte in legno c’era un prato che declinava sino all’acqua. Nuotarono e giocarono. Lae si sporcò con la limacciosa fanghiglia della riva e si finse un golem. Sulla fronte si era tracciato una lambda maiuscola.
Tea, invece, si cosparse di fango il seno e il viso urlando "Io sono Pandora, creata da Efesto. Sono colei alla quale ogni dio ha donato una virtù”. Si stesero nudi al sole. “Io ti amo” - gli disse – “Non come l’amore possa essere inteso comunemente. Ti amo perché io sono qui nuda e non me ne vergogno. Tu non mi hai mai guardato con malizia. Anche ora tu mi guardi in viso, mi ascolti, giochi e litighi con me. Non mi importa se ho i capezzoli turgidi e gonfi. Non guardi il pelo tra le mie cosce. Tu mi hai visto sempre nuda. Ed io ho sempre visto te nudo. Non ci siamo mai sfiorati, né mai l’abbiamo desiderato. Ora tu andrai in seminario ed io mi iscriverò a medicina. La guerra, stanti le notizie che giungono, è prossima. Io voglio ora che tu sia il primo.”
Lae chiuse e riaprì lentamente le palpebre.
Tea capì che le sue parole erano condivise e gli si avvicinò.
Lo toccò. Lo prese tra le dita. Era rigido. Lo prese in bocca.
Poi si sedette sopra di lui e, lentamente, ondeggiò avanti e indietro, in alto e in basso al ritmo di una musica mai scritta prima. Raggiunto il culmine, Tea si afflosciò sudata sopra di lui. Un riso irrefrenabile lo scuoteva, i capelli di lei gli coprivano il viso. Quando si tornò ad udire il cigolio della ruota del mulino, Tea disse: “Vorrei che tu fossi me, ora. Affinché tu senta la mia felicità e il mio piacere. Non te li posso descrivere. Subito è stato un poco doloroso. Poi, invece…”.
Lae le baciò la fronte. Lei si alzò in piedi e lui in ginocchio, davanti alla folta peluria: “Io Lae, prometto a te che, ovunque tu sarai e ovunque io sarò, mai smetterò di litigare con te. Per i secoli a venire”.
Tea inserì l’indice nella vagina e con l'umidità dei loro umori tracciò una tau sulla sua fronte. “Ricambio la promessa: ovunque tu sarai, ovunque io sarò!”.
Nella chiesa di San Giovanni Battista un organo domina la cantoria.
Su due canne sono incisi due nomi.