Rubo una pagina per scrivere, e un sorriso sardonico, amaro come il cocktail che neanche un'ora fa ho trangugiato, si dipinge sul mio viso, rendendolo quasi demoniaco in queste luci al neon lampeggianti come pulsazioni sanguigne che mi circondano: non è neppure un vero pezzo di carta, ma un accumulo di tovaglioli traslucidi che ho sottratto dal bancone del bar.
Persino loro puzzano di alcol e sudore, come me. Il riflesso degli orecchini pendenti che porto non fa che brillare sul laccato del mio smalto nero, schegge che trattengono fogli improvvisati. Mi è bastato guardare in cagnesco il guardiacessi per fargli capire di non rompermi il cazzo mentre sono qui dentro, apparentemente da solo, e spero non dovrò rimarcare questa necessità di solitudine per qualche minuto: anche se mi trovo qui per soffocare nel caos i miei pensieri potrò rinchiudermi in pace nel bagno di un locale mentre tutti ballano e si ubriacano, no? In realtà non so nemmeno perché sono qui: o meglio, so perché mi rifugio in luoghi come questo, ma non so perché stanotte ho scelto questo buco dimenticato da Dio. Suppongo la mia scelta sia stata casuale. un posto è come un altro, ma se si vuole nascondersi dalla routine e da ipotetiche facce conosciute quale pub meglio di uno annesso alla metropolitana, pieno di soggetti vomitati dall'inferno stesso della strada e della periferia? Con il buio, Il rosso e il verde che plasmano ritmi intensi giocando con l'oscurità, i tratti del mio volto sono solamente miei, e so che se anche i quintali di kajal e ombretto non dovessero bastare nessuno riuscirà comunque a ricondurre il ragazzo vestito di strisce di pelle e ninnoli al cameriere che in centro, di solito, serve in camicia perfettamente stirata piatti unti e ricercati sulla vista di Panoramastraße, Alexanderplatz. Dio, mi fa talmente schifo quel ristorante e la sua clientela che forse spero di riconoscere in realtà un habitué, per ridergli in faccia o persino godermi i suoi boccheggi mentre glielo succhio, dimenticandomi poi di averlo persino incontrato. Dal locale giunge musica techno, e niente più, e dove molti si sentirebbero disarmati io, per assurdo, mi sento a mio agio. Tutto questo forse un giorno finirà: smetterò di rintanarmi in squallide toilette e con squallidi e loschi figuri per attenuare la mia voglia di evadere o persino vincerla, ma fino ad allora perché non vivere, semplicemente, dimentico delle pressioni almeno una volta a settimana? A farmi da ricordo saranno questi tovaglioli sudici, che forse mi ricorderò di portare a casa con me per riporli tra le pagine del mio diario, e allora sorriderò senza somigliare ad un demone. Sarà mai possibile? E, soprattutto, lo voglio? Ha senso continuare a porsi queste domande retoriche che lasciano il tempo che trovano? Passo la mia vita da che ho memoria a chiedermi cosa sia giusto e cosa sbagliato, cosa abbia un senso e cosa no, e da sempre quando si spegne un obiettivo da rincorrere ne arriva un altro, nato guarda caso per farmi sentire sempre a disagio. Sì fa condizione di un'intera esistenza, il disagio, compagno fedele del mio vagare e di quello di innumerevoli disperati, ed ecco che il ghigno sarcastico ritorna sussurrandomi che non mi abbandonerà mai. Desideravo risse al liceo in una tranquilla cittadina di campagna allora, quando ancora non parlavo né una parola di tedesco né sapevo che un giorno avrei pregato di contorcermi tra le braccia di un uomo, come oggi, dove apparentemente lontano dal mio passato quando cerco un corpo da sedurre scopro che perennemente possiede gli stessi tratti di quel padre che ho lasciato in Italia. Sapete cosa? Almeno ora sorrido per mio diletto, e non per farmi clown per i miei "cari". Una piccola conquista, no? Chinato su sti fogli, le gambe incrociate e seduto per terra tra macchie di urina e birra con la schiena esposta a lasciare in bella mostra la spina dorsale tatuata con arzigogoli freschi e tribali, una discesa nera ed enigmatica fino al mio osso sacro, mi sale alla bocca il sapore dei salatini che sono stati la mia unica cena prima di venire qui, e nel sapido mi auguro di non rimettere quando forse abbasserò la zip dei jeans di qualcuno. Preferirei farlo a casa mia, sentendo la mia coinquilina imprecare con già una tazza di tè tra le mani, o non farlo affatto. Un po' di esperienza dovrebbe aiutarmi. E allora vivo, me la godo, e mi impongo di farmi notare solamente da ragazzi della mia età, niente nasi aquilini o capelli neri come quelli di papà, per una volta. Un'altra possibile conquista. La mia psicoterapeuta sarebbe fiera di me. Qualcuno prima o poi dovrà esserlo, ma ha senso anche questo, dopo tutto? Sono venuto qui da solo, da solo mi sono fatto la pelle dura a furia di "no" in questa o quella scuola dove andavo nella speranza di apprendere un minimo di questa lingua brusca, e da solo ho cercato l'amicizia e persino l'affetto di sporadici compagni di vita, senza troppe aspettative. Credo ciò che più conti sia ciò che io penso di me. Psicologa: sono bravo? Mi sono abituato a sentire una lacrima bagnarmi la guancia, rodato a vedere il trucco colato a sinistra, una goccia nera fino all'angolo delle labbra, e non curandomi di questo barlume di pianto non mi curo neppure di voltarmi subito quando percepisco qualcuno essersi fermato alle mie spalle. Sto continuando a scrivere, no? Eppure starà notando chiunque sia qui come risalta la mia pelle bianca attraverso il nero della rete che disegna il mio dorso, attraverso la parvenza di canotta che ho su? Scelte. Sono venuto qui per poterne avere. È per questo che alla fine mi volto, guardo finalmente che mi sta guardando. Caro diario, scrivo ovviamente a posteriori, poiché non so ancora farlo mentre fisso negli occhi un'altra persona. Azzurro liquido e brillante, onde color grano in un mallet discutibile ma fortunatamente legato in una pettinatura più moderna. Il suo pube sapeva di assenzio, il suo sesso di chiodi di garofano. Ho ingoiato lacrime e sperma fino all'ultima goccia, e mi ha stupito donare altrettanti liquidi a lui, lasciando che si muovesse tra le mie cosce e con la complicanza dei miei movimenti: il bacino sollevato, le ginocchia piegate, la schiena addossata al pavimento e le dita affondate tra le ciocche bionde. Cazzo, sì: non somiglia a nessuno del mio passato. Sono tornato a casa senza quasi toccare terra, un orgasmo incredibile, e mi preparo ora, ore dopo, a servire wurstel e crauti. È buffo io mi sia portato dietro il numero che mi ha lasciato scritto su un altro tovagliolo avanzato? Ripenso al fatto che stranamente pur tremando ancora mi abbia anche chiesto di fare una foto a ciò che ho scritto, a come dopo aver cercato chi è su Instagram mi abbia stupito scoprire che dipinge, differenziandosi quindi da banali porci. Caro diario, è assurdo: sto sorridendo mentre salgo sulla metro e tengo in mano lo smartphone per scrivere, e nel riflesso dei finestrini del treno non mi pare di notare un sorriso demoniaco.