Non senza patimento reclinai il mio misero corpo verso quelle acque reflue, che gorgogliavano satolle ed invitanti. Mi bagnai dapprima un polso, poi un gomito, scelti a caso tra le mie molte membra, e considerai che mancava poco più di mezz’ora alla chiusura. Ero felice in quegli istanti, più che altro mi ero incaponito ad esserlo: nelle mie condizioni non avrei potuto trovarmi in un posto migliore.
Immersi le caviglie, maculate di escoriazioni e graffiti, e provai un immanente sollievo. Scalpicciai educato, calcagno punta, punta calcagno, a mo’ di valzer lento, senza sciabordii e altre licenze. L’acqua fredda e profumata mi ristorava, in quel delicato ribollir, e mi misi quindi a ruotare malleolo e collo del piede, con piglio ellittico, traendone vieppiù beneficio; anzi, ormai tale era la letizia che sentivo di volermi, anzi di dovermi, genuflettere. Così feci, consegnando rotule e tendini a quelle acque benedette, che, per accogliere l’ingombrante massa, si alzarono di livello, seppur rimanendo cautamente al di sotto della soglia di guardia.
Non ero un pericolo per nessuno, insomma, se non per me stesso. Mancavano pochi minuti alla chiusura e la purificazione era lungi dall’esser esaudita. Grossolanamente inginocchiato, osai protendere le braccia in avanti e far poi scivolare i polsi verso il basso, verso lo specchio d’acqua. Le cicatrici brillarono prima di deformarsi sotto il velo dell’acqua: avevo immerso i polsi con la decisione di due sottomarini, non badando alla gravità di tale mossa. Ormai tutto ammetteva che inarcassi la schiena, e lo feci, con sincera eleganza: sembravo un felino inalberato. Qualcosa di caudato montò sulla mia collottola, lo sentivo scodinzolare, qualcosa di inetto e rantoloso. Lo scrollai quasi subito, del resto non poteva che essere planato accidentalmente e con altrettanta casualità si congedò senza manifestarsi oltre.
Bianco e nudo riflettevo i miei tratti nelle acque, che ora non ribollivano più, e cominciai, finalmente, ad attendere.
Attesi così a lungo, ben oltre l’ora di chiusura, puntellato a terra da una batteria di muscolose falangi e da tanta buona volontà.
La catarsi fu questione di pochi istanti e non mi appagò come altri avrebbero preteso. Fu come respirare senza ansiti ma non provai quella vicinanza benedetta, quel coito sublime, quel rollio di icone sante che tanti osservano nel seno della purificazione. Fu a ben vedere talmente breve e sciapa da non consentirmi di riguadagnare la postura eretta e di risplendere in dignità. Rimasi prostrato; del resto, nonostante la catarsi, non mi reputavo mondato dalle molte empietà e la mia posizione contrita seguitava ad assicurarmi clemenza. Infingarda creatura! Non che fosse facile però mantenere quella posa. I polsi cominciavano a balbettare provati dal mio peso corporeo, le reni arcuate a mo’ di cavalcavia dolevano nelle zone mediane, ginocchia e stinchi avrebbero gradite superfici più morbide. Ristoro e assoluzione erano pane solo per le mie cicatrici, che se ne rimanevano placide sotto il pelo dell’acqua.
D’un tratto fiotti di acqua bollente precipitano dall’alto, ripetuti e mortiferi, in una canea di sbuffi e di vapori, io cerco di sottrarre nuca e schiena ma quella colata lavica mi dardeggia tutti i pori, fortuna che sono stato appena purificato, forse è per questo che non provo dolore.
Mi distesi in tutta la mia lunghezza immergendomi appena sotto il livello dell’acqua e non accorgendomi che fumigavo un po’ da tutto il corpo. Insomma, avrei dovuto berciare e contorcermi, ma nulla di tutto questo accadde: stavo bene, immerso in quel liquido cristallino.
Senza alcun preavviso, le acque si rimisero a borbottare. Capii che dovevo sbrigarmi, presi quindi la spugna già mizza di olio per la doccia e mi misi a ispezionare e lavare ogni parte del mio corpo, grattando e cospargendomi di fragranze profumate. Poi passai al capo, che massaggiai con forza e benevolenza. Insomma, in pochi attimi avevo concluso quella bovina abluzione.
Mi alzai, indossai l’accappatoio e uscii dalla vasca facendomi largo tra i vapori del bagno.