«Ma io scrivo quello che sento…».
«Hai bisogno di un otorino? Oppure senti le voci e ti serve uno psichiatra?».
«Ma…»
«Sì certo! Ma. Ma lo vedi cosa scrivi qui? E qui? E qui?».
Ricciardi mosse la sua matita rossa e blu sul manoscritto che aveva davanti, dirigendola qui e là come un puntatore in cerca di bersagli. Le prime tre pagine erano un variopinto campo di battaglia disseminato da segni, righe e annotazioni. Le altre, anche se spiegazzate, erano intonse.
«Guarda qui, qui e qui – sbraitò – due monosillabi con l’accento fuori posto (uno è addirittura un “qua”). Questa concordanza è sbagliata. Questo è un anacoluto bello e buono. Qui hai messo la virgola prima del verbo e poi …ah, guarda qui, guarda questo congiuntivo. E devo farti notare anche gli avverbi di troppo, le ripetizioni, gli aggettivi inutili?» .
«Sì, ma il correttore di bozze…».
«Il correttore di bozze? Dovrei pagare il correttore di bozze perché non ti va di rileggere quello che scrivi?».
«Non dico questo…».
«Certo che non lo dici, lo paga paparino» .
«Senti, tu mi hai chiesto un romanzo di cinquecento pagine e…».
Ricciardi lasciò cadere sulla scrivania il manoscritto e squadrò l’allampanato giovanotto che aveva di fronte.
«Oh, ma guarda chi abbiamo qui, un poeta ermetico».
«Senti non credo che tu…».
«Noi abbiamo un contratto, mio languido bohemièn. Io ti pago a battuta e lo sai perché mi servono cinquecento pagine? Perché ho già concordato il contratto con lo stampatore e il volume deve essere spesso tre centimetri e venti, perché quello è lo spazio che deve occupare nelle librerie del distributore. Sono stato abbastanza chiaro?».
«Sì, però…».
«Però? Lo sai che pseudonimo ti sei scelto?».
«Io non ho scelto…».
«Lo sai o no?».
«Jack Torrance».
«Appunto. Il tuo primo libro era un thriller, amico. Lo hai scritto tu, non io, tu. E per tua disgrazia o per tua fortuna ha avuto un certo successo, così un bel giorno il tuo paparino viene qui e mi dice che gli piacerebbe se il suo tenero virgulto pubblicasse un libro. Bene, dico io, non c’è problema. Però il ragazzo deve cavarsela da solo, dice lui. Benissimo, dico io. E adesso eccoti qui».
«Sì ma un giallo…».
«Senti, figliolo – disse Ricciardi appoggiando la matita sul tavolo – lo so che può non sembrarti un bell’andare, ma così va il mondo. Il pubblico vuole un altro thriller e io devo vendere per vivere. Quindi diamogli un thriller e non… - riprese in mano il manoscritto – un brodo annacquato come questo».
«Io ci ho provato, ma…».
«… ma hai scoperto di non essere Jeffey Deaver. E nemmeno Stieg Larsson… be', con lui ti è andata bene, visto che è morto». A questo punto Ricciardi abbassò la voce o, meglio, la ridusse a un tono normale. «Lo so com’è – disse – lo so benissimo». Impugnò di nuovo la matita e prese a brandirla. «Però hai esagerato» riprese, agitandola come la bacchetta di un Toscanini infuriato. «Lo sai che cosa sembra, questa roba? Hai presente quando alle elementari dovevi scrivere i temi e cercavi di allungare il discorso? Be’, qui è lo stesso».
«Sei tu che volevi cinquecento pagine».
«E allora? Pensavi di scrivere cinquecento volte “il mattino ha l’oro in bocca” finché non arrivavi in fondo?». Gettò manoscritto e matita in un angolo del tavolo e si protese con fare cospiratorio verso il suo interlocutore. «Lascia che ti confidi un segreto. Scrivere per il pubblico non vuol dire andarsene in giro sventolando il libro e gridando: ehi, guardate che bella personalità che ho».
«Ma il detective riflette il mio io e…».
«E a chi credi che interessi il tuo io, ragazzo?!. Questo povero cristo, in cinquecento pagine, estrae la pistola solo tre volte e non riesce neanche a farsi la segretaria. Almeno ci fosse una bella scazzottata. Macché. Sempre lì a ripetersi com’è duro e cinico il mondo, come sono cattivi i ricchi e come sono corrotti i politici… non ti sembra la solita solfa?».
«A dire il vero…».
«Appunto. E non solo mi suoni la solita solfa, ma stai lì a menarla e rimenarla per mezzo romanzo. Ripeti lo stesso concetto almeno una dozzina di volte a pagina. Vuoi che ti riveli un altro segreto? Chi usa quattro parole per esprimere un concetto definibile con tre è capace di qualsiasi delitto».
«Posso tirarmi indietro».
Ricciardi si distese sulla poltrona, incrociò le braccia dietro la testa e sorrise. «In questo caso – disse – scatterebbe la penale prevista dal contratto. E il tuo caro, dovizioso paparino è il garante».
«Ma io non…».
«Non l’avevi letta, lo so. È in fondo al contratto. Lo sai qual è la parte più brutta del tuo capolavoro? – accennò al romanzo squadernato in un angolo della scrivania – il finale» .
Ricciardi alzò gli occhi al cielo e recitò a memoria. «Mi allontanai nella nebbia e me ne tornai a casa». Prese a dondolarsi sulla sedia. «Non sei John Grisham, ormai lo sappiamo tutti. Ma hai una settimana di tempo per tornare qui con un romanzo vero, una storia come si deve, un personaggio plausibile, un finale decente e… cosa fai, non ho ancora finito…» .

 

 

«Non toccarla, aspettiamo ancora il medico legale».
«Oh, che cosa vuoi che ci dica d’altro: è entrata nell’occhio ed è penetrata fino al cervello».
«Hai mai visto usarne una in quel modo?».
Il brigadiere si alzò gemendo. Stava diventando vecchio.
«No. Anzi, non ne vedevo una da anni, dai tempi della scuola. Una matita rossa e blu. Roba da matti».

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