Herr Staub, come ogni sera, stava aspettando l’ometto.
La faccenda era cominciata due settimane prima.
Quel tizio si era fatto vivo verso l’ora di chiusura e si era piazzato davanti alla vetrina, immobile, insensibile al freddo, al vento, ai passanti che lo spintonavano. Muto, rigido, quasi cadaverico.
Per tutto il tempo non aveva fatto altro che fissare quel quadro di Böcklin: L’isola dei morti.
Herr Staub aveva riconosciuto subito, nell’ometto, una delle tante vittime di guerra. Uno che aveva lasciato il cervello nelle trincee anche se il corpo, chissà come, continuava a vagare per le strade della Germania sconfitta.
Ne aveva avuto pena e aveva ritardato la chiusura del negozio per permettergli di contemplare la sua ossessione.
C’era gente che faceva di peggio.
Uccideva, rubava, stuprava. La Grande Guerra era finita e il Kaiser era caduto, ma la violenza non era finita per niente.
Quando Herr Staub era uscito, l’ometto gli si era avvicinato stringendo quello che sembrava un grosso bastone.
Herr Staub aveva stretto i pugni d’istinto, poi l’ometto aveva srotolato l’oggetto che teneva in mano. Tele. Riproduzioni di paesaggi urbani, edifici pubblici. L’ometto si guadagnava da vivere così, vendendo i propri lavori ai turisti e ai benestanti.
Nella Monaco del 1919, però, non c’erano più né gli uni né gli altri.
In breve, si erano messi a parlare del quadro di Böcklin, mentre la tensione scivolava via da Herr Staub come la pelle vecchia di un serpente.
Quella nella vetrina era una riproduzione, ovviamente; per essere esatti una copia della prima versione del quadro, la più nota. L’autore era ignoto, ma non privo di talento.
L’ometto ne era affascinato anche se – aveva pensato Herr Staub mentre dava un’occhiata fugace ai disegni che l’altro gli aveva fatto scivolare in mano – il suo stile era alquanto diverso. Piuttosto scadente, a dire il vero. Forse già definirlo stile era un complimento. Prospettive rigide, geometriche, senz’anima. Linee di fuga che, in realtà, non portavano da nessuna parte. A Herr Staub vennero in mente le sbarre nel braccio della morte di una prigione e quel brivido d’inquietudine che sembrava averlo lasciato tornò, per un attimo, a farsi sentire.
L’ometto, però, continuava a parlare del quadro, come se ne fosse stregato.
Non c’era da stupirsene. Quel dipinto ti colpiva, anche se magari solo alla seconda occhiata, e persino una riproduzione, se ben fatta, poteva produrre lo stesso effetto.
Era ipnotico, magico. E inquietante, in qualche modo.
In apparenza non c’era motivo. Non era Goya, Fussli, Friedrich. E, naturalmente, non aveva nulla a che spartire con quell’altro quadro, l’Urlo di Munch.
Non c’era nulla di spaventoso, in esso, nulla di arcano. Solo un’isola, in mezzo a un mare tranquillo, sotto un cielo plumbeo. Tra le rupi s’intravedevano degli scavi. Spigoli di bianchi edifici squadrati si stagliavano contro le rocce bruno – giallastre. Intorno, alti cipressi. Una barca, sulla quale stava ritta una figura ammantata, di spalle, mentre un’altra sembrava remare, pareva dirigersi verso una piccola baia al centro.
Nulla di terrificante, all’apparenza.
Ma l’apparenza poteva ingannare.
A guardarlo bene, a guardarlo con lo spirito giusto, si era come trascinati dentro, quasi seguendo la scia, appena accennata, che la barca lasciava sulle onde.
Poteva non essere piacevole. Si percepiva il mistero, sì (proprio come Herr Staub percepiva il vento tra le mura della città sconfitta e impoverita), ma si era portati a pensare che fosse uno di quei misteri che è meglio non svelare.
L’ometto accanto a lui stava parlando senza posa, come una mitragliatrice che non la smette di crepitare, così Herr Staub – nella speranza di toglierselo di torno – gli aveva svelato il difetto (o il trucco) nascosto nell’opera.
«La barca si dirige verso lo spettatore, non si allontana da esso, come negli originali» aveva detto sperando che quel fanatico, deluso, alzasse i tacchi.
L’ometto invece era andato in estasi. Un’esaltazione che non aveva nulla di religioso né di consolatorio e che non lasciava intravedere nessuna possibilità di salvezza. Doveva avere quel quadro. Herr Staub era obbligato a darglielo. Era essenziale che lui avesse quel quadro. Non era possibile, non era concepibile, non era tollerabile che Herr Staub si rifiutasse di dargli quel quadro.
Per la prima volta Herr Staub aveva guardato l’ometto negli occhi. Erano stranissimi. Chiari, gelidi e invasati, con un bizzarro alone rossastro intorno. Fuoco freddo. Iceberg alla deriva nella notte polare. Gas. Già. Aveva sentito dire che l’iprite usata in guerra poteva produrre quegli effetti. Doveva essere iprite.
«Trenta centesimi» aveva balbettato Herr Staub mentre i brividi – vera paura, stavolta, e anche qualcos’altro – lo avvolgevano in spire sempre più strette. Che l’ometto tornasse con trenta centesimi e il quadro sarebbe stato suo.
L’individuo lo aveva fissato per alcuni secondi, poi aveva detto qualcosa e se n’era andato nella notte bavarese come inghiottito da un gorgo di acqua sporca.
E, da due settimane, Herr Staub, ogni sera, lo aspettava, e al diavolo i facinorosi che giravano per le strade dopo il tramonto, pronti a incendiare e distruggere.
Gli avrebbe dato il quadro anche gratis – copia o non copia… già, ignorava chi fosse l’autore; poteva essere Böcklin stesso (se aveva dipinto cinque versioni poteva anche essercene una sesta, no?), ma non gli importava niente.
Voleva liberarsi di quella dannata tela.
Da un po’ aveva cominciato a sognarsela.
Nel sogno lui se ne stava in piedi davanti al quadro e lo fissava, incapace di muoversi.
Gli sembrava che, ogni notte, la barca si facesse sempre più grande, come se si avvicinasse, dirigendosi verso di lui.
Ormai vedeva le pieghe nelle vesti delle due figure, ne indovinava le forme sotto i mantelli. Forme che potevano essere umane, ma che potevano anche non esserlo.
Era la figura in piedi a spaventarlo, soprattutto. Presto, anche troppo presto, secondo i suoi calcoli, quel volto (o qualunque cosa fosse) avrebbe occupato l’intero dipinto.
Ma Herr Staub non aveva nessuna intenzione di vederlo.
Decisamente, non ne aveva nessuna voglia.
Sì… quel dannato quadro aveva cominciato a ossessionare anche lui.
Aveva saputo che anche altra gente ne era affascinata. Gente strana, gente da cui era meglio stare alla larga. Come quel pittore spagnolo, Dalì, o quel medico dei matti, Freud.
E come quell’omuncolo svitato, ovviamente.
Meglio disfarsene.
Vide la sagoma dell’ometto apparire in lontananza, camminando con movimenti isterici, rigidi, come una marionetta tirata da fili invisibili.
Soldi o non soldi, gli avrebbe dato il quadro e addio.
Al massimo, avrebbe chiesto a quel pazzoide se, in cambio, poteva tenersi gli scarabocchi che gli aveva piazzato in mano prima di andarsene.
Li srotolò ancora, esaminandoli più per abitudine che per altro. Non ci avrebbe ricavato nulla. E chi l’aveva mai sentito nominare questo… Adolf Hitler?