Le case dei nonni si trovano sempre al culmine di salite infinite. Chissà perché alla nostra età le salivano come ballerini e noi invece le soffriamo così tanto.
Siamo pigri, grassi, ineducati al movimento. Non facciamo che passare il tempo a lamentarci.
“Porca miseria!”
“Boia d'un mondo!”
Vorremmo che tutto l'Universo stesse in piano; che fossero tutti monolocali con doppi servizi e veduta sul Central Park. Queste case di pietra in salita ci logorano i polpacci, ci rompono i coglioni, in qualche modo ci danno fastidio.
Ma sono ottime per la cena di Natale.
Non appena la luce si accende sul piccolo disimpegno sembrano volare via centinaia di falene. Erano poggiate sulla macchina per cucire, sui cestini, sui vecchi posacenere incrostati. Volano via e non si sa dova vanno a nascondersi.
“Hai visto le farfalle?”
“Vai ad aiutare a portar su le robe, che io le farfalle ce l'ho nello stomaco per la fame!”
La prima cosa che si fa entrando nelle vecchie case dei nonni è scostare le tende; aprire le finestre.
I veli si sollevano come tulle di danzatrici e si aprono su un mondo tranquillo. Un angolo di casa di pietra, un pozzo oramai secco, il vecchio pollaio.
Davanti alla finestra del salone c'è il tratto di strada su cui pedalava Mollicone per andare dalla sua amante, Clelia. Aveva 90 anni ma pedalava come un giovanotto. Lei apriva lesta la porta e la richiudeva subito dopo, tutta frizzante. Mi pare avesse quattro o cinque anni di meno, Clelia.
E quando entra la luce sembra quasi che le cose: le credenze, gli armadietti, la vecchia cucina subiscano una bruciatura.
Si sente un CRAC di giunture spezzate, di gangli messi a dura prova. Ogni anno tutti gli oggetti perdono un po' più di colore. La poltrona su cui sedeva il nonno da rossa che era ora sfoggia un rosa piumino; la stufa di ghisa ha perso la targa di metallo che campeggiava al centro. “Stufe italiane Grossoni”.
Nel lavabo del bagno c'è una traccia grigia di marea invisibile. Tutti i libroni illustrati del nonno s'appoggiano gli uni agli altri sui ripiani. E tra i libri scorgo ogni tanto il naso di un nanetto, il bastone di uno gnomo saggio.
“Hai visto lo gnomo saggio?”
“Porta su la scatola dei giochi che stasera vi svuoto le tasche!”
La cosa che faccio sempre quando entro nella casa dei nonni è aprire la loro camera da letto. Accidenti se ne erano gelosi!
Tenevano sempre chiusa la porta e quando era aperta, comunque tutto era in penombra e passando si poteva vedere solo la poltrona su cui era seduta come una Regina la bambola dono del nonno.
Ora non solo vado ad aprire l'uscio, ma spalanco la finestra e lascio che tutto si inondi di luce. Non è per mancanza di rispetto, ma perché loro amavano la luce. Negli ultimi anni erano soliti passare ore in giardino a fare minime cose.
“Se fai una piccola cosa ogni giorno, non dovrai far grandi fatiche tutte insieme” mi diceva sempre lui, mentre mi attaccava alla pelle l'amore per le piante; per il giallo prima citrino e poi saturo dei limoni, per le grasse foglie del basilico, per la cascate di salvia, per la rustica malinconia delle margherite.
Dalla loro finestra si vede il bosco dietro la casa. Una bassa recinzione divide questa dalle querce fitte, dai pini isolati, dai radi noccioli che crescono disordinati nell'umido.
Dormivo spesso con loro, quando c'era tanta gente.
La notte di Natale, stando attenta, tra una scampanata e l'altra a mezzanotte potevo sentire il pianto eterno della vedova Nunzia, che aveva gli occhi come fari bianchi capaci di mandare gli automobilisti fuori strada.
“Avete sentito la vedova?”
“Dormi che domani il giorno viene presto!”
E infatti ancora oggi aspetto l'alba con il fervore di una credente. Non appena schiarisce e la nebbia si posa tra le radici degli alberi esco in giardino o quel che ne resta.
Quella che prima era una regale rosa antica rampicante ora è un groviglio di spine nuove e vecchie, addentellate assieme.
Dove facevano enormi cuscini le ortensie viola ora c'è terra e foglie morte e mollicce che il Grecale ingannevole sposta negli angoli.
Perché tutta questa nostalgia in una quindicenne? Perché non sono capace di pensare ad ora, alla mia giovane età e alla spensieratezza con cui le altre mie coetanee sembrano convivere beatamente? Esiste evidentemente una statistica nella quale io sono nella parte anomala della numerica legata alla mia età. Sono quel trattino basso e quasi invisibile del grafico a barre, denominato “adolescenti nostalgico/tristi/depressi”. Sono quella sottilissima fetta del grafico a torta, dunque...
Mi giro verso casa. Sulle scale di legno che danno sul patio mio padre sta seduto e guarda. Il vento teso annuncia pioggia.
“La pioggia appare quando il vento scompare!”
Gli vado incontro. Mi posa una mano sulla spalla. E' un gesto di complicità.
“Certo siamo delle bestie!”
“Lo penso anche io...” rispondo.
“C'erano tante belle cose qui! Le rose, le ortensie... e il bosco francamente non mi sembrava tanto minaccioso un tempo. Si vede che è incazzato.”
Stiamo ancora un po' lì, fermi a pensare. Nelle tempie ho una nebbiolina di immagini e musica.
“Dì! Ti ricordi quando il nonno ballava? Che poi era un ballo tutto suo... com'è che faceva? Spetta un po'??”
Si alza e dopo aver traballato un po' solleva prima una gamba e poi l'altra, e sollevandole si mena delle gran pacche sugli scarponi con le mani.
“UHI UHI UHI” ritma con la voce. Ma dopo una decina di salti si appoggia sfinito sulla staccionata.
Il Grecale accumula nuvole nere.
Un ricordo dura il tempo di un ricordo.
Mio padre come in ipnosi alza lo sguardo verso il bosco.
Tra le chiome delle querce, simili a due fari, gli occhi della vedova vanno in disperata cerca.