Non so perché quella notte decisi di parlare con te, Rocco. Forse eri il solo a sembrare abbastanza fuori posto da non farmi paura. Passeggiavo senza meta lungo i Navigli, con quel peso sul petto che non se ne andava da settimane. Mi fermai a guardare l’acqua, cercando di mettere ordine nei miei pensieri, quando sentii la tua voce.
«Tutto bene?» avevi chiesto, con un tono esitante, quasi goffo.
Ti ricordi? Io alzai lo sguardo, incerta se rispondere o ignorarti. Ma nei tuoi occhi c’era qualcosa, una gentilezza che non ero più abituata a vedere. Così ti dissi la verità: no, non andava tutto bene.
Ti parlai di Marco, del nostro incontro in un bar qualche anno prima, quando pensavo che l’amore fosse una cosa semplice, senza complicazioni. Marco era diverso, o almeno così credevo: appassionato, pieno di vita, il tipo di uomo che ti fa sentire speciale solo guardandoti. Mi aveva promesso il mondo, e io gli avevo creduto.
Quando mi chiese di aspettarlo, non esitai. Doveva partire per lavoro, diceva, una di quelle opportunità che capitano una volta nella vita. Mi giurò che sarebbe tornato entro sei mesi, un anno al massimo. E io, come una sciocca, lo aspettai.
I primi mesi passai il tempo a fantasticare sul nostro futuro. Ma col passare dei giorni, le sue chiamate si fecero meno frequenti, i messaggi più brevi, pieni di scuse. «Sono impegnato», «Sto cercando di sistemare tutto». E io lo giustificavo, perché l’amore ti rende cieca, vero?
Ti raccontai tutto. Come il silenzio di Marco si era trasformato in una presenza costante nella mia mente. Come avevo cominciato a chiedermi se fossi io il problema, se non fossi abbastanza per lui. Ti parlai delle notti passate a cercare di capire cosa fosse andato storto, delle volte in cui avevo quasi deciso di dimenticarlo, ma poi bastava una sua chiamata, una sola parola, per riportarmi al punto di partenza.
Ti ascoltavo mentre annuivi, senza mai interrompermi. Forse non capivi del tutto, ma mi lasciavi parlare, ed era quello di cui avevo bisogno.
Ti ricordi quando ti dissi che non sapevo più chi fossi senza di lui? Era vero. Marco aveva preso tutto di me: il mio tempo, i miei sogni, persino la mia identità. Ero rimasta lì, bloccata, mentre lui andava avanti con la sua vita.
Poi, una settimana dopo il nostro primo incontro, accadde qualcosa di inaspettato. Marco mi chiamò. Disse che era tornato in città e voleva vedermi. Mi sentii come se il mondo si fosse rimesso in ordine. Ero pronta a perdonargli tutto, a ricominciare da capo, perché pensavo che fosse quello l’amore: sacrificio, attesa, sopportazione.
Te lo dissi, ricordi? Ti raccontai del nostro incontro al parco. Marco era lo stesso, con quel sorriso che mi aveva conquistata la prima volta. Ma mentre parlava, mentre cercava di spiegarmi perché era sparito così a lungo, capii qualcosa. Non c’era più magia in lui. C’erano solo parole vuote, scuse che suonavano come una canzone già sentita troppe volte.
Quando tornai a casa quella sera, piansi per ore. Non perché lo avessi perso, ma perché finalmente avevo capito che non mi aveva mai davvero amata.
Non ti ho mai ringraziato abbastanza, Rocco. Quelle notti a parlare con te, a camminare lungo i Navigli, mi hanno aiutata più di quanto tu possa immaginare. Non mi hai dato soluzioni, né mi hai detto cosa fare, ma eri lì, e questo è stato sufficiente.
Ora sto cercando di riprendermi la mia vita. Non so se ci riuscirò, ma almeno ci sto provando.
E tu, Rocco? Hai mai trovato quello che stavi cercando in quelle notti? Spero di sì. Perché, se c’è una cosa che ho imparato, è che non possiamo passare la vita ad aspettare chi non ci merita.